ultimi articoliUltimi articoliNapoli Ottocento alle Scuderie del Quirinale:11/19/2024NEWSUn omaggio alla vitalità artistica napoletana Dal 27 marzo al 16 giugno 2024, le Scuderie del Quirinale di Roma ci invitano a immergerci in un’epoca straordinaria con la mostra “Napoli Ottocento.” È un omaggio appassionato alla scuola napoletana del XIX secolo, quando Napoli non era solo una città, ma un crocevia culturale dove la storia, le tradizioni popolari e le nuove idee si incontravano in un affascinante intreccio artistico. Visitare questa mostra non è solo osservare dei quadri o delle sculture; è entrare nel cuore pulsante di una città che ha saputo trasformare i propri contrasti in bellezza. L’arte del popolo e della natura Passeggiando per le sale della mostra, sembra quasi di sentire il vociare delle strade napoletane dell’Ottocento, intrise di vita popolare e quotidianità. I grandi maestri dell’epoca, come Francesco Paolo Michetti ed Edoardo Dalbono, hanno catturato l’essenza della loro terra con pennellate che sembrano raccontare, più che dipingere. I loro quadri non sono semplici paesaggi o scene di vita, ma racconti visivi che ci immergono nella cultura e nelle tradizioni di Napoli. Nelle loro opere, il mare brilla di una luce quasi divina, le campagne sono cariche di atmosfere vibranti, e ogni volto sembra nascondere una storia. Domenico Morelli, figura di spicco della mostra, è un altro artista che non si può ignorare. Con il suo tocco romantico, Morelli esplora una Napoli spirituale e intima. I suoi personaggi, spesso immersi in una dimensione sacrale, rappresentano un’umanità profonda e sfaccettata, che affonda le radici in secoli di storia e leggenda. Non si tratta solo di religione, ma di una spiritualità che pervade ogni aspetto della vita, dagli incontri quotidiani ai momenti di solitudine. Un realismo emotivo L’arte napoletana dell’Ottocento è spesso descritta come realista, ma non è un realismo freddo o distaccato. È piuttosto un “realismo emotivo,” uno sguardo partecipe e affettuoso che gli artisti posano su una realtà umile ma dignitosa. Nelle opere di Vincenzo Gemito, uno scultore capace di rendere tangibile il mondo popolare e semplice di Napoli, la materia sembra prendere vita per raccontare storie di pescatori, contadini e popolani. Le sue figure, spesso ruvide e spontanee, ci appaiono in tutta la loro vulnerabilità e forza, come un’ode alle radici più genuine della città. La mostra riesce a ricreare questa energia vitale, facendoci percepire l’arte napoletana come un linguaggio universale che sa parlare delle emozioni più semplici e al tempo stesso profonde. Nella pittura di genere, che raffigura scene di vita popolare, è evidente come gli artisti napoletani siano stati capaci di rendere straordinario ciò che è ordinario, trasformando il quotidiano in poesia visiva. Il dialogo con l’Europa Napoli nell’Ottocento non era solo una città del Sud Italia; era un porto aperto al mondo. Gli artisti napoletani, pur mantenendo salde le loro radici, si confrontavano con i grandi movimenti artistici europei, dal Romanticismo al Naturalismo, reinterpretandoli alla luce della loro cultura mediterranea. Così, le influenze straniere venivano assorbite e rielaborate, dando vita a uno stile che univa la tradizione locale con le nuove idee internazionali. Le Scuderie del Quirinale ci offrono una visione chiara di come Napoli, con la sua luce, i suoi colori e la sua gente, sia riuscita a entrare in dialogo con l’Europa senza mai perdere la propria identità. La mostra ci mostra quanto la città fosse un laboratorio di innovazione artistica, capace di anticipare alcune delle tendenze che si sarebbero sviluppate nel Novecento. Un viaggio nella Napoli autentica Visitare “Napoli Ottocento” è come fare un viaggio indietro nel tempo, attraversando la bellezza e la complessità di un’epoca che ha segnato profondamente l’immaginario artistico italiano. Non si tratta solo di ammirare capolavori; è un’occasione per riscoprire Napoli attraverso gli occhi di artisti che l’hanno amata e vissuta, per cogliere quell’essenza fatta di contrasti, passioni e contraddizioni. La mostra alle Scuderie del Quirinale celebra, in fondo, non solo un periodo storico, ma l’anima di una città e di un popolo che, attraverso l’arte, ha saputo raccontare la propria storia al mondo intero. In questo percorso, possiamo prendere coscienza di quanto l’arte possa essere una finestra sull’identità di un luogo, un mezzo per entrare in contatto con una Napoli lontana ma sempre viva, che sa ancora parlarci con la sua voce antica e al contempo modernissima....BOLDINI E SARGENT TRA PARIGI E LONDRA03/19/2024angiolinoA partire dai primi anni del Novecento, Giovanni Boldini intrattiene uno stretto rapporto di amicizia con John Singer Sargent. Le sue vicende artistiche e personali si incrociano infatti ripetutamente con quelle del pittore americano. A tutt’oggi non si conosce il momento preciso del loro primo incontro, avvenuto verosimilmente a Parigi grazie alla mediazione di Paul Helleu, amico di entrambi. Da quanto ci è permesso ricavare dai dati finora in nostro possesso, si può avanzare una datazione prossima alla fine degli anni settanta dell’Ottocento, mentre sono documentati con maggior certezza i contatti nei periodi successivi, quando assumono una forma duratura e proficua, rafforzata soprattutto da quel giro di amicizie comuni che li porta a frequentarsi costantemente. È facile pensare come Sargent potesse favorire la creazione di legami e conoscenze utili agli affari professionali di Boldini. Già durante il 1891 si era rivolto direttamente ai propri facoltosi committenti americani per avvisarli del futuro viaggio oltreoceano di Boldini, intrapreso poi tra l’autunno e l’inverno 1897-1898, e prima ancora a Parigi lo aveva introdotto presso i suoi brillanti amici della colonia cilena. Nel corso del 1902 la ricca collezionista Mary Hunter, intima amica di Sargent e sua conoscente fin dal 1895, scambia molte lettere con Boldini, ricordando di avergli commissionato il proprio ritratto. La signora, appassionata cultrice dell’ambiente artistico europeo, colleziona infatti svariate opere che la raffigurano, come il costume del tempo richiede. Sargent e Antonio Mancini eseguono alcune sue affascinanti effigi e Auguste Rodin un busto marmoreo. La corrispondenza inedita, risalente al 1903, consente di stabilire con certezza che nel mese di giugno il dipinto concepito dal ferrarese è ormai pronto e il pittore si appresta a dare le ultime passate di vernice. L’artista informa così la Hunter dell’arrivo del fotografo nel suo studio parigino di boulevard Berthier per eseguire una riproduzione da inviarle direttamente a Bagnoles de l’Orne, dove lei si trova per le consuete cure termali, affinché possa giudicare di persona della sua riuscita. Successivamente la invita a passare al più presto in atelier, dove tra l’altro in quel momento è presente l’amico Helleu, rimasto “incantato” dal ritratto. E ancora le chiede un’ulteriore seduta “per fare una piccola cosa d’una grande importanza nel vostro ritratto”. Ricorda anche di aver appena appreso dai giornali della morte di James Abbott McNeill Whistler, “un grande pittore che è scomparso che ha inventato e creato”. La Hunter prega poi il pittore di lasciar vedere la tela a un’amica, dichiarandosi molto soddisfatta della sua conclusione. “Il ritratto me lo sento nelle mie vene – scrive – non dimenticherò mai le mie sedute da voi. Mai difficoltà, mai malintesi. Mi creda per sempre vostra sincera amica”. L’avvicinamento tra loro è favorito anche dagli assidui spostamenti del pittore, tra il 1902 e il 1903, a Londra, dove la signora dimora al 65 di Grosvenor Street Boldini in quegli anni si reca spesso in quella città considerando anche l’opportunità di trasferirvisi e di aprire un atelier. Sicuramente i due si incontrano alla fine del luglio 1902: la Hunter è a Londra poiché il 31 di quel mese sua figlia Sylvia si sposa con Sir John Grant Lawson e, in una lettera al pittore, ricorda di come sia occupata con una delle sue tre figliole. Nello stesso periodo arriva anche Boldini, la cui permanenza è indirettamente confermata da varie missive recapitate presso il suo indirizzo al 39 di Hyde Park Gate e datate fine luglio. Tuttavia Boldini non partecipa al matrimonio perché rientra a Parigi, da dove il 2 agosto scrive alla signora per scusarsi della sua assenza. Purtroppo il ritratto di Lady Hunter, nonostante sia sufficientemente documentato, rimane sconosciuto, e anche la promessa della stessa signora di presentarlo a una futura esposizione alla Royal Academy of Arts, a seguito dell’interessamento di Edward Poynter, presidente della medesima, non viene mantenuta. Il pittore si prepara comunque per questa evenienza che sembra doversi concretizzare: dalla missiva del 1° agosto apprendiamo della partenza per Trouville, ma anche dell’impellenza di occuparsi di nuovo del dipinto. “Sarà anche necessario che il presidente mi invii qualche informazione e qualche consiglio per farlo ben riuscire.” E invita la signora a incontrarlo al più presto con indosso un abito vero e grazioso. A settembre scrive di nuovo alla Hunter perché ha avuto un’idea che sembra appagare la sua inventiva: “Lasciate tutto vi prego e venite a Parigi ne vale la pena ho trovato qualcosa che renderà il ritratto molto piacevole. Un corpetto bianco di mussola in pizzo all’ultima moda. Sono arrivato da due giorni e sto facendo fuoco e fiamme per il vostro ritratto”. Alla fine, decide di intervenire sull’opera già finita apportando degli aggiustamenti volti ad aumentarne l’attrattiva, anche se tutto ciò comporterà la necessità di ripassare la vernice sull’intera superficie della tela. Ma questo non è un problema perché può contare sulla sua grande abilità d’artista! Quando Boldini giunge nella città inglese, Sargent, che vi risiede sin dal 1886, è molto impegnato con le commissioni per il ricco mercante Asher Wertheimer e il pittore italiano si ritrova coinvolto in quel vivace fermento creativo, ottenendo l’incarico di ritrarre una delle figlie di quest’ultimo: Elizabeth. Il dipinto, successivamente terminato a Parigi, è presentato nel 1906 alla Sesta Esposizione dell’International Society of Sculptors, Painters & Gravers tenutasi alla New Gallery di Regent Street a Londra tra gennaio e febbraio. Nella recensione sulla rivista “The Studio” è riconosciuta l’efficacia dell’opera, dovuta alla stupefacente tecnica dell’artista e alla sua maestria pittorica, rese entrambe con la consueta e spiccata disinvoltura della sua manualità. Alla rassegna, dal forte carattere di internazionalità, come tutte le altre promosse dalla società, partecipa anche John Lavery, che ricopre al tempo stesso la carica di vicepresidente, mentre presidente del comitato esecutivo è Auguste Rodin subentrato all’ammiratissimo James Abbott McNeill Whistler, titolare dal 1897 al 1903. Boldini è membro onorario, come Paul Helleu e Anders Zorn. Personalità, queste, legate in vario modo all’amico Sargent. Anche quest’ultimo ritrae Elizabeth, assieme alla sorella Ena, un anno prima di Boldini. Nel mirabile dipinto ora alla Tate Gallery di Londra, l’immagine delle due ragazze denota un carattere robusto, concreto, preciso, anche se in una posa molto informale a sottolineare il forte legame di amicizia stabilito dal pittore con tutta la loro famiglia d’origine. La figura di Boldini, benché rifletta la stessa eleganza di quella dell’americano, gode di un eccezionale vigore e di una libertà di invenzione restituiti dalla sua virtuosissima mobilità di mano. Il quadro presenta un ulteriore carattere spiccatamente sargentiano che risalta chiaramente al confronto con un altro ritratto di gruppo, quello delle sorelle Wyndham del Metropolitan Museum of Art di New York. Sebbene Mrs Adeane Wyndham ed Elizabeth Wertheimer siano due tipi di donne diversissimi nel volto e nel sorriso, mostrano una somiglianza sorprendente nella posa e nella fattura del braccio piegato in un certo modo, memore e a sua volta affine al gesto di Mrs Hunter nel dipinto che la raffigura ora a Londra. Il soggiorno londinese è finalizzato ad allacciare nuove conoscenze, portatrici di nuove commissioni per l’operosissimo Giovanni. Si vede con Madame Eugène Schneider, nata Antoinette de Saint-Saveur, nipote del marchese di Biron, suo amico e suo fine estimatore. La signora è già stata raffigurata una prima volta con un elegantissimo abito nero e un particolare del suo volto è pubblicato sulla prestigiosa rivista “Le Modes”, a seguito della sua presentazione all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Nel 1903 il ferrarese si misura nuovamente con il ritratto a figura intera della donna, in posa insieme a uno dei figli, in cui le qualità luminose e il tocco felicissimo sono inconfondibilmente boldiniani. “Boldini vuole stupire sé stesso – scrive la Cardona – la signora in piedi, in un abito da sera che si intravede sotto il grande mantello di velluto paonazzo ornato di ermellino, tiene stretto il figlioletto vestito come un principe, coll’abitino di velluto, il collo di pizzo su cui cadono i capelli biondi come quelli di un infante di Velázquez, e i calzini audacemente rossi nelle scarpine nere. Le calzine del bambino sono la nota che lega, pittoricamente, le due figure: quel tocco caldo va a riallacciarsi al rosso del mantello. Madre e figlio, in quei loro abiti sontuosi, segno del tempo e del loro rango sociale ed economico, non stanno in posa: il bambino sembra sul punto di sfuggire dalla stretta della madre, e questa pare voler muoversi nel gesto di trattenere il bambino. Dipingere due figure così, e dipingerle quasi afferrandole, è la battaglia che Boldini dà a sé stesso e che vince. La vita di questa tela è allucinante e basterebbe da sola a caratterizzare tutta l’arte di Boldini e tutta un’epoca”. Molto vicina per concezione a questi dipinti è l’effigie del pittore inglese Lawrence Alexander “Peter” Harrison, in stretta confidenza con Sargent e marito della grande amica di quest’ultimo, Alma Strettell, poetessa e traduttrice inglese, entrambi da lui raffigurati più volte. Il ritratto di Boldini mostra una spiccata unità di intenti con quello dell’aristocratico scozzese Lord Dalhousie dipinto da Sargent intorno al 1900. Vi predomina la medesima eleganza disinvolta e l’estrema grazia, rafforzata in Boldini dall’ammirazione per il pittore settecentesco Thomas Gainsborough, ma la sua figura ha un senso del movimento più sciolto nelle curve sottili e delicate del corpo, sollecitate con mezzi inusitati, rapidi e personalissimi. L’aver individuato una missiva di Sargent inviata a Mary Hunter in questi anni ci permette di essere informati riguardo a un invito rivolto dallo stesso, insieme a “Peter” Harrison, a Boldini per discutere dell’esecuzione di un ritratto, la cui riuscita sembra soddisfare le loro aspettative. Il fatto di essere recapitata a Mrs Hunter sottolinea in maniera convincente – se mai ce ne fosse ancora bisogno – quanto da noi fin qui asserito: l’intesa e i vincoli strettissimi esistenti tra questi personaggi nel comune interesse per tutti gli aspetti dell’arte del momento. E ancora in un’altra del 18 dicembre 1903 mandata da Boldini alla Hunter è di nuovo menzionato l’amico Sargent che lo aveva avvertito del breve passaggio a Londra della signora. Giovanni le riferisce inoltre con precisione i prezzi di vendita dei suoi dipinti. Le opere sinora analizzate fanno parte di una produzione dell’artista sempre più orientata verso l’eccezionale singolarità della composizione, accompagnata a una leggera nota di stupore che affascina, e la speciale qualità della pittura, velocemente e audacemente condotta con grande sicurezza di mestiere. In un ambito così variegato di relazioni si inserisce molto persuasivamente un ulteriore e favorevole incontro per Boldini, quello con il commerciante d’arte irlandese Hugh Lane, capace di riportare esplicitamente al nome dell’americano e in relazione a sua volta con Mary Hunter. Lane è un personaggio di grande rilievo nella cultura dell’epoca: la sua ricca collezione di opere confluisce nella City Gallery di Dublino, da lui inaugurata nel 1908, con l’intenzione di far conoscere approfonditamente l’arte contemporanea ai suoi connazionali. Mary Hunter tiene un’intensa corrispondenza con lui, dimostrando di essere molto partecipe dell’iniziativa e complimentandosi perché era riuscito con costanza a raccogliere così tante opere a supporto del suo ambizioso proposito. Sin dal 1904 un primo nucleo di dipinti viene esposto nei locali del National Museum of Ireland. Anche i membri della House of Commons riconoscono l’eccellente operato di Lane soprattutto a seguito del successo decretato dalla Winter Exhibition of Old Masters da lui organizzata nel 1903 a Dublino. Si mostrano perciò solleciti a coinvolgere nel progetto gli artisti viventi più in vista, quali Sargent, James Jabusa Shannon, John Lavery, Nathaniel Hone e William Orpen affinché giungano a condividere il grandioso obiettivo. Nella prefazione al catalogo della City Gallery nel dicembre 1907 Hugh scriverà di essersi tanto impegnato negli acquisti per fare di questa galleria la più ampia rappresentazione dei più grandi maestri del XIX secolo”. Nel copioso carteggio di Lane si presenta per noi particolarmente interessante il rinvenimento della lettera del 28 ottobre 1904, attestante in modo circostanziato il contatto diretto e inedito fra lui e Boldini. L’impegno programmatico di Lane non può prescindere dall’interesse per i lavori di Boldini e si prodiga per procurarsi un dipinto che per il suo significato lirico aiuti a intendere la sua complessa ed eccezionale individualità: il Ritratto di James Abbott McNeill Whistler. Boldini, onorato dalla richiesta e dalla possibilità di destinare il suo dipinto al museo di Dublino, propone una cifra di milleseicento sterline ricordando come in genere fosse orientato a chiederne duemila e come l’offerta del museo di Filadelfia non fosse giunta a persuaderlo. Non ci è dato sapere il motivo per il quale la trattativa non ha avuto esito alcuno e la tela, ceduta prima a Paul Helleu, tramite l’intercessione di Sargent viene poi comperata per il Brooklyn Museum. Il magnifico Ritratto di James Abbott McNeill Whistler è presentato una prima volta a Parigi nel 1900 all’Esposizione Universale e poi riproposto a Londra alla Sedicesima Esposizione Estiva della New Gallery nel 1903: nella recensione sul “The Art Journal”, la più prestigiosa rivista d’arte di quegli anni, è descritto con parole di grande ammirazione: “una delle più stupefacenti ‘performance’ in pittura è il n. 271. Non fa rimpiangere l’assenza di Sargent all’esposizione. I visitatori non hanno bisogno di far riferimento al catalogo per riconoscere Mr James McNeill Whistler – agitato, sprezzante e insieme fantastico. Il dipinto, datato 1897, ed esibito al Salon, nasce dal pennello di M. Jean Boldini. Nessun artista avrebbe osato ritrarre Mr Whistler, il coraggio di Boldini è stato ripagato, con un ritratto stupefacente. È stato mosso da una veemenza che spazza via tutto quello che c’è stato prima. È difficile concepire destrezza, concisione, audacia di questo tipo, portate a un livello così estremo. C’è una sola nota di colore, la decorazione rossa indicativa dell’onore francese accordato a Mr Whistler. La sedia è grigia, la spalliera marrone, tutto il resto è bianco e nero. La massa di riccioli scuri cade sulla fronte, i baffi sono forti, la posa è vera come si conviene. Due dettagli in particolare risultano straordinari: il modo di rendere il monocolo senza sforzo nell’occhio destro e il cilindro. Qualcun altro artista può competere con la supremazia di Boldini come ritrattista in un modo così sorprendente?”, conclude con trasporto il recensore. Il pregio del dipinto è riconosciuto anche da Mrs Hunter in visita alla mostra: “Sono molto contento che il ritratto di Whistler vi sia piaciuto”, scrive infatti lusingato il pittore nella missiva inviatale a maggio. A questo primo tentativo di Boldini di imporsi definitivamente sulla scena inglese, segue quindi una successiva opportunità, determinata dal rapporto con Lane dell’anno seguente, che estende l’attenzione anche all’Irlanda. Secondo la recensione da noi ritrovata, il dipinto è mostrato in seguito, nel maggio del 1908, a Parigi, al Palais du Domaine de Bagatelle della Société Nationale des Beaux-Arts dove è ammirato più degli altri lavori esposti “per la vistosa destrezza di Boldini nella realizzazione della ‘mephistofelica’ rappresentazione di Whistler”, ponendo l’accento su quella bellezza quasi “demoniaca”nella prepotenza realistica della fisionomia e del temperamento dell’arguto personaggio. Le segnalazioni qui proposte, riferite alla partecipazione a due importantissime esposizioni coeve, finora poco esaminate, aggiungono un determinante punto fermo nella storia della tela. Rimarcano inoltre l’intonazione dei giudizi frequentemente espressi in quel periodo riguardo al pittore, mettendo in evidenza la forte singolarità del suo operato e l’effetto che suscita fra gli esperti i quali “bene o male non possono non parlare di lui”. Boldini, tuttavia, non ha mai dato molto seguito a quanto sostenuto dai critici e dai giornalisti e come riferisce la Cardona: “spulciando i suoi archivi, abbiamo trovato pochi ritagli di giornali e quasi tutti ancora nelle loro buste, non letti”. Una piena adesione agli stilemi boldiniani è manifestata dal cultore contemporaneo Camille Mauclair, il quale nel mirabile saggio del 1905 scrive come il ritratto di Whistler eseguito da Boldini “è il solo che sia mai stato degno di questo grande uomo. Le altre effigi di Boldini sono state fatte per l’amore della pittura ma questo era per l’amore di Whistler ed è semplicemente uno dei capolavori dell’arte moderna. È il documento più inestimabile riguardante Whistler: e decisivo per comprendere Boldini”. Il dipinto è ricordato ancora nel 1911, in confronto al Ritratto del duca di Wemyss dell’amico Sargent esposto a Roma: “Pochi ritratti moderni, e forse solo il Whistler di Boldini, può competere con questo nell’impressione di quel fremito di vita che traspare da una tela come dalla carne umana”. Nonostante la continua attenzione manifestata sin qui dagli studiosi, l’intento di definire le vicende che portano all’esecuzione dell’opera, ai tempi e alle circostanze del primo incontro tra Boldini e Whistler non ha ancora trovato soluzione. In una delle ultime monografie dedicate al pittore statunitense si specifica che alla data del 1897, quando il dipinto fu realizzato, i due si conoscevano “solo da pochi anni”. In effetti le datazioni più antiche e più certe sinora documentate riguardanti la prima relazione tra i due artisti, seppur indiretta, risalgono al 1890 e al 1891 e coinvolgono Robert de Montesquiou come mittente di un paio di lettere. Nella prima, del novembre 1890, Montesquiou fa riferimento a un’opera a lui donata da Boldini, ancora inedita e non identificata, rappresentante qualcosa da riferirsi a Whistler; la seconda, del 13 febbraio 1891, è un invito di Montesquiou a Whistler a cominciare il suo ritratto, in quanto già possessore di un’effigie di Whistler eseguita da Boldini. Nel 1894 poi, Boldini lo invita a partecipare alla Prima Biennale di Venezia per l’anno successivo. Gli scambi epistolari con il presidente della rassegna Riccardo Selvatico, a tal riguardo, mostrano una certa confidenza di Boldini con l’americano, dando sicura conferma dei primi anni novanta come datazione più convincente alla quale ricondurre l’eventuale iniziale incontro. Il rapporto fra i due pittori rimane comunque alquanto controverso e sfaccettato nel corso del tempo: l’americano accetta di posare per Boldini, ammirando infatti lo stile della sua pittura che rimanda a grandi maestri del passato, Frans Hals, Diego Velázquez e Francisco Goya, ma gli imputa, come a Sargent, una esagerata spavalderia di mano. Non risulta perciò pienamente soddisfatto dell’opera, pensa di apparirvi “crudo” più di quanto non sia nei suoi atteggiamenti più burberi. Boldini lo rappresenta infatti fedelmente, con l’evidenza della sua età, con il volto magro e scuro contornato dai baffi grigi che si confondono con i capelli dello stesso colore. E nonostante la tela sia stata poi l’eccezionale attrazione della New Gallery nel 1903 e fosse prossima a partire per l’America, alla sua vista Whistler non risparmia un giudizio caustico: “Sì, audacemente intelligente, ma grazie al Cielo, non è un mio ritratto!”. Queste contraddizioni non impediscono all’americano di sostenere l’invio del dipinto alla Prima Esposizione dell’International Society of Sculptors, Painters & Gravers a Londra nel 1898, anche se Boldini, non ritenendolo completo nel complesso e nei suoi particolari, decide di non esporlo. Partecipa invece alla rassegna itinerante negli Sta- ti Uniti organizzata nell’autunno del 1903 dalla stessa International Society, per la quale Whistler nutre grande interesse, rafforzato anche a seguito della convocazione da parte delle principali accademie e istituzioni d’arte americane. Il dipinto viene poi domandato in prestito nel 1899 dalla prestigiosa Society of Portrait Painters, fondata a Londra nel 1891 da quegli artisti poco propensi ad accettare i criteri di selezione delle opere da esporre alle mostre periodiche da parte della Royal Academy of Arts. L’istituzione è caratterizzata fin da subito per una spiccata apertura di stampo internazionale e predilige le maggiori e avanzate istanze della ritrattistica contemporanea, favorendo di volta in volta gli specialisti più operosi presenti in Europa. L’invito non ha l’esito sperato dall’organizzazione poiché – come risulta dai registri di quest’ultima da noi analizzati – Boldini rifiuta di partecipare alla mostra prevista tra gennaio e febbraio presso la Grafton Gallery. Si può presumere che non fosse ancora soddisfatto del dipinto, ma la scelta di richiederlo evidenzia una vera e propria dichiarazione di apprezzamento della società, dove l’artista aveva già esposto tra gli altri, alcuni lodevoli ritratti, quello del compositore Giuseppe Verdi, oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, nel 1892 e il Ritratto del piccolo Subercaseaux, conservato al Museo Giovanni Boldini di Ferrara, l’anno dopo, suscitando sempre consensi per l’originalità e la peculiarità del suo operato. Per altre due volte si insiste nel richiedere la tela: Lavery nella riunione del 2 ottobre 1900 propone di far inviare direttamente da Parigi, per conto del sodalizio e tramite Pierre Dumont, che tra ottobre e novembre si troverà in quella città, almeno sei dipinti di artisti francesi per l’imminenza dell’esposizione. Fra questi compare il nome di Boldini, con la segnalazione del “Ritratto di Whistler”, insieme a quello di Claude Monet e altri. Dal comitato della società viene fatto un ulteriore tentativo per la mostra di novembre del 1901 alla New Gallery: già il 3 ottobre Boldini viene sollecitato ad aderire. Nei documenti delle riunioni del consiglio non si ha tuttavia nessuna indicazione specifica sul dipinto desiderato. La lettera datata 9 ottobre del segretario Hugh de Twenebrokers Glazebrook riporta invece l’esplicita richiesta del “mirabile ritratto di Mr. Whistler”. Ma il pittore non è convinto nemmeno questa volta: nella lista dei lavori inviati dai partecipanti del 5 novembre 1901 non c’è infatti alcuna menzione del suo nome. Altre circostanze che possono far pensare a un incontro di Boldini con Whistler provengono dai ricordi del pittore francese Jacques-Émile Blanche. L’artista rammenta quando a Londra con Helleu e il ferrarese andò a bussare alla porta dello studio di Whistler in Tate Street perché intenzionato ad avvicinarlo. Blanche riporta questa notizia più volte nei suoi scritti, inducendoci a valutarne la veridicità, ma la scarsa precisione non conduce all’individuazione del momento certo dell’incontro. Pure mettendo a confronto le varie opere critiche di Blanche non si arriva a circoscrivere inequivocabilmente un periodo. Tuttavia, l’informazione è importante per sottolineare ancora quella comunione di intenti e l’ammirazione rivolta al pittore americano. Gli artisti dell’epoca si entusiasmano soprattutto per il segno intenso e nervoso della sua pittura, diverso da quello raffinato e preciso di John Singer Sargent, ugualmente gradito, ma anche per le forme della ritrattistica monumentale di stampo settecentesco rinnovata con vigore da John Lavery, per l’accuratezza delle sue invenzioni accompagnate sempre da una ricercata concordanza nelle scelte cromatiche, suggerita dai titoli di molte opere, che enfatizzano come composizione e colore siano ciò che più conta in pittura. E già la critica coeva ne comprende la particolarità: “Al colore egli riuscì a dare una speciale funzione di musicalità, e tali furono le armonie, che ne ritrasse da far vibrare le note più alte del sentimento in accordi melodiosissimi”, così infatti ne parla appropriatamente il Paralupi. Lane ha una seconda possibilità per tentare di acquisire un dipinto di Boldini, e lo fa tramite la sollecitazione di quello appartenente a José Tomás Errázuriz. Così risulta dalla missiva di quest’ultimo, datata 1° aprile 1906, dalla residenza di Londra, in risposta alla supplica del collezionista irlandese “di prestargli il suo ritratto di Boldini”. Si tratta sicuramente dell’effigie della moglie Eugenia Huici Arguedas, eseguita nel 1892, abbinata in origine a quella della giovane figlia della coppia, Carmen. I due lavori sono esposti in quell’anno al Salon du Champs-de-Mars a Parigi, ma accolti con misurata approvazione dagli addetti ai lavori. Alcune considerazioni critiche ci inducono ragionevolmente a sostenere la validità di queste nostre puntuali valutazioni, consentendoci di raccogliere intorno a queste qualcosa di più complesso e articolato. José Tomás Errázuriz fa parte di una ricca casata cilena, proprietaria di prospere miniere di rame; diplomatico, collezionista e pittore egli stesso, sposa nel 1879 Eugenia Huici Arguedas, donna di raffinata bellezza, fortemente interessata alle manifestazioni artistiche del tempo. Entrambi apprezzano la cultura europea e, nei continui spostamenti tra Londra e Parigi, Eugenia ama circondarsi delle personalità più in vista dell’epoca: “la belle Madame Errazuriz, como se la llamò. Amiga inspiradora de tantos grandes hombres, en sus tertulias de Paris se encontraban Decourt, Leys, Nelson, todos ellos afamados decoradores, con los pintores en boga, Sargent, Boldini, Sert, Helleu, Blanche y Picasso, con Granados, con Strawinsky. Era un centro de artistas, en el que se pasaban momentos inolvidables”, ricordano i suoi estimatori. La lettera di José Tomás Errázuriz rivela un aspetto determinante per supportare l’identificazione certa e inequivocabile delle sue congiunte nei ritratti del 1892 ed evidenzia il fatto non certo trascurabile che possedesse un dipinto eseguito da Boldini. Nei repertori dell’opera boldiniana, così come nel catalogo del Salon del 1892, le due donne sono approssimativamente indicate con l’appellativo di “M.me Errázuriz” e “M.lle Errázuriz”, non consentendo il loro riconoscimento decisivo e lasciando aperta la possibilità di essere scambiate con altre componenti della famiglia, prime fra tutte Josephina Alvear de Errázuriz e sua figlia Josephina Alvear de Gomez, chiamate in genere allo stesso modo. Ma Josephina è la moglie del diplomatico cileno Matias Errázuriz Ortúzar, ambasciatore a Parigi, cugino di José, sposato solo nell’aprile del 1897, quindi qualche anno dopo l’esecuzione del dipinto proposto a Parigi e reclamato da Lane. I ritratti di Josephina e di sua figlia realizzati da Boldini sono necessariamente più tardi e vengono presentati in coppia nel 1910, sebbene diversi nel formato. Nel 1912 il pittore raffigura la sola signora, ripresa in una diversa posizione, ma capace di mantenersi fede- le all’originaria ispirazione del primo dipinto. Appartengono quindi agli anni in cui Josephina è diventata effettivamente Madame Errázuriz e si distinguono da qualsiasi altro risultando difficilmente confondibili con i ritratti del 1892, riproducenti ovviamente altri personaggi. Una deduzione questa, dalla quale deriva il nostro convincimento che di quei dipinti solo uno entra a far parte della collezione personale di José Tomás Errázuriz, quello della consorte. L’altro, rappresentante la figlia, continua a permanere nel- lo studio di Boldini, muovendo il pittore a lasciarci una seconda immagine della signora – in effetti presente nel catalogo delle opere – volta a ricostituire l’unità della coppia. E saranno questi due ultimi a essere successivamente comprati dal barone Maurice de Rothschild: appaiono già appartenenti a lui nella grande esposizione di New York del 1933 insieme a tutti gli altri della sua collezione e sono presenti nella vendita all’asta del 1995 di quindici preziosi dipinti della sua prestigiosa raccolta. Probabilmente il clamore suscitato dall’esibizione dei due dipinti a Parigi porta José a non acquistarli entrambi ma a preferire quello raffigurante la sola Eugenia. Ed è questo a far da modello per Boldini nel compimento della replica, terminata con maggiori accortezze e arricchita di ulteriori espedienti compositivi, tali da spiegare le differenze esistenti tra loro, senza compromettere tuttavia l’autentica freschezza dell’opera. In un contesto così singolare le riproduzioni pubblicate nel catalogo della rassegna parigina del 1892 arrivano indubbiamente ad avere un nuovo significato per noi, concorrendo a delineare ulteriormente l’identificazione sicura delle due donne ma soprattutto a rendere certa l’individuazione dell’iniziale ritratto di Eugenia, quello che rimane di proprietà della famiglia. A conferma di tale ricostruzione giunge anche la testimonianza del pianista Arthur Rubinstein, intimo amico di Madame Errázuriz, il quale, in visita presso la sua abitazione londinese di Chelsea nel 1915, ricorda un Boldini appeso alla parete vicino al ritratto della donna realizzato da John Singer Sargent. Il primo dipinto, ancora posseduto dagli Errázuriz, è menzionato frequentemente dai discendenti nel corso del tempo: Mariana Errázuriz Braun, pronipote di Eugenia, ricorda infatti in più occasioni come la zia Hester Mary Ogilvie-Grant Errázuriz, cioè la figlia di Carmen Errázuriz, avesse vari lavori di Picasso e insieme un prezioso Boldini. Tutto questo trova riscontro anche nella testimonianza del fotografo Cecil Beaton, il quale recatosi nella casa di Eugenia a Parigi negli anni trenta constata- va l’immutato fascino della signora sebbene molto avanti con l’età, lasciando immaginare quanto fosse stata bella quando la raffigurarono Helleu, Sargent, Boldini e altri artisti all’inizio del secolo. Intorno ai due dipinti esposti al Salon parigino sorge di fatto un certo interesse e un acceso dibattito fomentato dai critici contemporanei. Nelle pagine de “L’Artiste” essi sono accompagnati da parole non troppo accattivanti – indirizzate all’estrema raffinatezza delle figure femminili ma soprattutto alla posa scomposta, audace e conturbante della giovinetta–, proprie di quell’atteggiamento reiterato verso la produzione boldiniana degli anni compresi tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento per la quale si tira frequentemente in ballo l’intento “scandaloso”. Questo avviene poiché non si recepiscono appieno i suoi raggiungimenti artistici e non si capisce come possa aver mirato fin da subito a una via sua propria, differente da quelle percorse da altri innovatori più facilmente comprensibili. Ciò non impedisce tuttavia l’apprezzamento per l’adeguatezza del suo linguaggio e per la resa veritiera delle sue figure, e Lane, più attento ai contenuti pittorici e all’espressione individuale, richiede il prestito temporaneo del ritratto femminile da inserire nel percorso pensato per la galleria dublinese. In quell’occasione, Errázuriz si dispiace moltissimo di non poter rispondere al suo cortese appello e per ragioni personali non si spende per offrire il dipinto.L’attualità dei ritratti boldiniani di questi anni è comunque indiscussa e persuasiva, anche se il pensiero di Mauclair, che nota una sottilissima diversità fra la maggior efficacia di quelli maschili rispetto alle immagini di donne, più influenzate dalle frivolezze dovute all’incostanza della moda, persiste ancora a seguito di una esposizione successiva, quella del Salon parigino del 1913. “ Quest’anno dopo aver visitato il Salon della Società Nazionale, si constata che perfino le opere di vari di questi artisti che il pubblico suole prediligere interessano meno del consueto”, scrive il Sarti e poi con serietà aggiunge: “Ma rimangono, come ho detto, i ritratti di Boldini e le tele di qualche altro grande maestro. Boldini ha esposto un ritratto di signore ed uno di signora: il primo è d’una sorprendente espressività, il secondo manca di questo carattere che io ritengo essenziale ma è d’un’eleganza e d’un’originalità mirabili”. E afferma pure, secondo il pensiero corrente: “Come sempre, le sue tele sono assai discusse, assai criticate, ma costituiscono uno dei clous dell’Esposizione”. Le circostanze addotte fin qui sono di non poco interesse per definire in che modo Boldini sia giunto alla prestigiosa commissione e come tutto concorra verso il nome di Sargent quale tramite per la stessa, ed è per questo motivo che Lane agisce con sicurezza nella pretesa del ritratto ideato da Boldini. L’incontro di Eugenia con Sargent avviene verosimilmente nel corso del suo viaggio di nozze in Europa nel 1880, quando si ferma a Venezia per far visita a Ramón Subercaseaux, cognato di José. Ramón, poi console cileno a Parigi, è un talentuoso artista recatosi in quella città per studiare ed è amico dell’americano, impegnato a lavorare a Palazzo Rezzonico. È lo stesso Ramón a ricordare come in Europa i due fossero strettamente legati e che si erano successivamente ritrovati a Venezia, dove amavano passeggiare lungo i canali alla scoperta della città, sempre pronti ad annotare le osservazioni sulle loro piacevoli escursioni artistiche. A Venezia Sargent ritrae l’amico in una piccola effigie e lo rappresenta una seconda volta all’aria aperta sulla gondola dondolante nella laguna. Ramón e sua moglie Amalia Errázuriz sono perciò intimi di Sargent, che coinvolge nell’amicizia anche Boldini: il loro figlio Pedro nelle Memorias, rammenta come il padre era solito nominare abitualmente il suo vecchio amico Sargent. Ma l’unico artista che ricorda frequentare la loro casa durante la permanenza a Parigi, dove arrivano nel 1887, è Boldini. La relazione di quest’ultimo con i Subercaseaux è lunga e proficua a tal punto che, mentre realizza la doppia immagine di Pedro col fratello Luis, lavora anche a svariati dipinti riproducenti i vari membri del numeroso nucleo famigliare: la cugina Emiliana Concha de Ossa e sua sorella Elena, la zia Juana Browne de Subercaseaux, la nonna Magdalena Vicuña e il pastello della madre Amalia. Ancora dalla testimonianza di Ramón si apprende come Boldini nutrisse grande compiacimento per il ritratto dei suoi due giovani figli, tale da considerarlo come una delle cose migliori che avesse mai compiuto. Il rapporto di Sargent con Eugenia perdura ininterrottamente negli anni, quando il pittore esegue diversi ritratti dell’affascinante amica. E da ciò derivano i rapporti lavorativi di Boldini con altri componenti della famiglia cilena, tutti patrocinati e promossi da Eugenia. Ne risultano opere con esiti non omogenei ma con un’ispirazione di fondo basata su eleganza, ricercatezza e brio. Sicuramente l’incarico di raffigurare Josephina Alvear de Errázuriz e sua figlia viene affidato grazie alla mediazione di Sargent: è l’americano infatti a stabilire un primo contatto professionale con Matias, eseguendo il suo ritratto a carboncino insieme a quello di suo figlio Mato, a seguito dell’intervento diretto di Eugenia Huici Arguedas. La signora è anche consigliera di Matias nei lavori di sistemazione della sua residenza a Buenos Aires dove trovano la loro collocazione definitiva i ritratti boldiniani, dopo il decisivo ritorno di quest’ultimo in Argentina nel 1917: l’effigie della figlia Pepita nel vestibolo dalla preziosa boiserie accanto a quella del fratello Mato, eseguita da Joaquín Sorolla alla “maniera del Velázquez”, e quella della moglie nello studiolo, luogo privilegiato di solitudine e serenità, dipinto nel quale Boldini riesce a esprimere mirabilmente tutta l’ammirazione e l’affetto provato per la donna. “Boldini e Sorolla: l’eleganza di fronte alla forza”, scrive Matias. L’enorme patrimonio della signora permette alla coppia di vivere agiatamente, di viaggiare in Europa e conoscere facoltose personalità e rinomati artisti: Rodin, Sorolla, Sargent, Paolo Troubetzkoy e Boldini, che esegue cinque magnifici ritratti. L’artista raffigura anche la signora Juanita Edwards de Gandarillas, moglie del diplomatico José Antonio Gandarillas, nipote di Eugenia. Sono i due coniugi a ospitare Eugenia nella lussuosa dimora di Chelsea, fino a quando lei si trasferisce a Parigi nel 1916. Ed è ancora Rubinstein a ricordare la visita dei tre nello studio di Sargent, situato nella stessa strada, ma soprattutto la stima dell’americano per Eugenia alla quale riconosce lo straordinario gusto per l’arte, la letteratura, la musica e per la cura della decorazione degli interni. Boldini esegue il ritratto di Juanita, “una bella e molto elegante giovane dama” vicina alla figlia Marie Rose nel 1914: realizzato in parte forse a Parigi e poi a Londra, dove il pittore si trasferisce di nuovo, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. La colonia “chilena fue acrecentándose en París considerablemente y en lo salones de nuestra legación en la rue Washington lucían hermosas y elegantes damas de nuestra aristocracia”, ricorda Balmaceda Valdes. “Por aquellos años Boldini, el pintor preferido de la aristocracia, pintaba los retratos de doña Juana Browne de Subercaseaux, de Elena y Emiliana Concha, de doña Amelia Errázuriz de Subercaseaux y de sus hijos” e anche quello di Eugenia Huici de Errázuriz, “la belle chilienne”, ancor prima che fosse confuso con quello di Josephina Alvear de Errázuriz. Eugenia introduce il pittore presso altri suoi facoltosi conoscenti quali la sua carissima amica Julia Elena Acevedo e il marito Miguel Alfredo Martínez de Hoz, allevatore argentino di pregiati cavalli di razza. Intorno al 1912 il ferrarese esegue l’immagine a figura intera dell’uomo e quella a mezzo busto della signora. Lei è molto impegnata in attività assistenziali ma è anche appassionata di giardinaggio e disegna il parco della magnifica residenza di Malal Hue in Chapadmalal. I coniugi sono grandi estimatori della cultura inglese e non è strano che chiamino l’architetto londinese Walter Basset Smith per costruire la loro casa in stile neogotico. Il castello diviene luogo di incontro di personalità internazionali. In un gruppo di fotografie poste nello studio in Malal Hue compare la riproduzione del dipinto di Boldini della signora Josephina Alvear de Errázuriz, a riconfermare i contatti e gli intrecci tra queste importanti famiglie dell’America del Sud, committenti dell’illustre pittore. Forse Boldini esegue anche il ritratto della figlia dei Martínez de Hoz, la vivace Maria Julia conosciuta da tutti come Nena. L’influenza di Sargent è importante per l’opera di mediazione commerciale che svolge con dedizione nei confronti di Boldini ma anche perché veicola nei suoi dipinti la ricerca di quella maniera scintillante, di quell’ambizioso “far grande” – derivante a sua volta dall’attenzione per la lezione dei grandi artisti del passato – e dell’estrema eleganza, sebbene tradotte dal ferrarese con un fare del tutto proprio e individuale, consono agli artifici di una originalità prevaricante che rende unica ed esclusiva l’essenza dei suoi lavori. Già gli studiosi dell’epoca sottolineano come il pittore fosse “affascinato dalla tecnica di John Singer Sargent” e anche la Cardona rammenta con puntualità: “Boldini amava e ammirava il talento di Sargent, sorrideva all’idea di abitare e di lavorare laddove il suo grande emulo aveva vissuto”. In egual modo Sargent riconosce il valore di Boldini, l’acume con cui analizza i modelli, tanto da collezionare alcune sue opere. Jacques-Émile Blanche ricorda la visita allo studio dell’americano a Londra nei primi del Novecento, dove avrebbe notato sul muro, fra i suoi dipinti, quelli di molti artisti italiani: “de toiles de Mancini, de Boldini, de Morelli”. Dal catalogo di vendita della collezione di Sargent del 1925, risulta sicuramente di sua proprietà quello dal titolo Confidenze del 1872. A Venezia Sargent incontra probabilmente per la prima volta il pittore suo compatriota James Abbott McNeill Whistler, presente tra il settembre del 1879 e il novembre del 1880 per il soggiorno finanziato dalla Fine Art Society di Londra finalizzato all’esecuzione di numerose incisioni riproducenti i luoghi più suggestivi della città. Nella città veneta i due condividono amicizie comuni, consuetudine verificatasi poi anche a Londra e a Parigi. Whistler a Venezia accoglie regolarmente le coppie di ricchi inglesi e americani, stabilitisi in città provvisoriamente o in via definitiva. La familiarità tra i due favorisce anche quella di Eugenia Huici con Whistler, con cui aveva in comune la passione per il Cile, visitato da quest’ultimo tra il 1865 e il 1866. Tale rapporto risulta consolidato dopo il trasferimento di entrambi a Londra, nei primi anni del Novecento, vicini di casa nella zona di Chelsea. Ed è verosimile pensare come Whistler, per il ricevimento organizzato in suo onore a Londra, avesse offerto in omaggio alla padrona di casa il dipinto raffigurante la veduta della baia di Valparaíso. Secondo quanto avanzato da Pereira Salas, infatti, la Huici aveva un dipinto di Whistler con il panorama sul porto di quella località. È sua nipote, Josephina Alvear de Gomez, assidua frequentatrice dell’abitazione parigina della zia, a tramandare direttamente la notizia a Pereira Salas, poi riportata con scrupolo nel suo studio critico sulla storia della pittura cilena. Tutto questo interessa al nostro scopo per evidenziare il nesso proficuo tra artisti e committenti ma soprattutto per ribadire – quasi con certezza – come Boldini non fosse a Venezia insieme a Sargent, contravvenendo a quanto sostenuto dal vecchio biografo dell’americano, Charles Merril Mount. È infatti improbabile che soggiornasse presso la laguna in quel periodo e non avesse rapporti con i nuovi amici di Sargent, cioè Whistler e Eugenia Huici, conosciuti invece in momenti diversi. Secondo Mount, mentre Sargent esegue i lavori in Palazzo Rezzonico, prende uno studio al piano superiore dello stesso stabile e vi trova alloggiato pure Boldini, il quale compie un piccolo ritratto del pittore americano. Tale affermazione non ha mai trovato un seguito attendibile nella critica più recente e oggi siamo in grado di confutarla a seguito delle nostre nuove considerazioni. I ritratti di Eugenia, come quello di Carmen, di Josephina Alvear de Errázuriz e di sua figlia Josephina, di Juanita Edwards de Gandarillas e di Julia Elena Acevedo sono pervasi da un’eleganza eccezionale e resi da un virtuosissimo tratto veloce e autentico presente da cima a fondo sulle tele. La pennellata rapida è il segno della maestria del pittore e della dedizione nella preparazione dell’opera in cui nulla è improvvisato o abbandonato al caso, diventando quasi l’impronta distintiva volta a rendere vive le figure permeate dall’instabilità del movimento senza mai tentare di frenarla o bloccarla, ma lasciandola costantemente tale e ben evidente. La torsione del dorso di Eugenia insieme alla volontà espressa di alzarsi dalla poltrona, la posa ardita della figlia, la leggerezza e le movenze eleganti di Josephina e la suggestiva azione della figlia che vivifica anche il suo sguardo sembrano contribuire a prolungare i gesti e i movimenti nell’ambiente circostante dove predomina la ricerca della loro vitalità e la gioia di accrescere quegli attimi vissuti con fervore. Un modo che nel corso degli anni a venire troverà la sua più vistosa manifestazione nella ricchissima serie di successivi ritratti femminili, ottenuto con segni ancora più dinamici e immediati, con linee convulse e frementi. “Per Boldini non si trattava di una ‘ricerca’ psicologico-formale, né dell’applicazione di un canone teorico, guai a pensarlo: era la fonte più spontanea della sua personalità artistica che si esprimeva in questi lanci, grovigli, picchiate, tratteggi sismici, tensioni ed esplosioni, con una forza di vitalità istantanea che da una sensualità ottica e fisica adunca, intensamente aggressiva trapassa, spesso, in un’ardente felicità animale”. Questo è ciò che scrive con estrema intelligenza Carlo Ludovico Ragghianti nel 1963, in occasione della mostra di Boldini a Ferrara, quando finalmente si arriva alla piena e condivisa comprensione del suo operato e al conseguente riconoscimento di tutto il suo valore e della sua celebrità. Quello che egli vive e sente lo riporta appassionatamente sulla tela, non dimenticando le sue radici e come vi sia giunto: la grande tradizione italiana, ferrarese e fiorentina, e tutti quegli artisti che veramente contano direttamente o indirettamente nella sua più genuina formazione, conosciuti personalmente, o tramite i viaggi d’istruzione e nei musei. L’olandese Frans Hals, possente ed espressivo, lo spagnolo Diego Velázquez, così attento alla realtà e all’eleganza, l’inglese Thomas Gainsborough, raffinato e aristocratico, i contemporanei americani Sargent e Whistler e i francesi Edgar Degas e Édouard Manet. E di tutto questo ne fa un composto esplosivo, unico, attuale e di carattere internazionale. “Aveva superato la tecnica per poter cogliere senza preoccupazioni o durezze l’essenziale di ciò che voleva dipingere” e la superficialità che a volte la critica più antica gli imputava “corrisponde all’ingannevole aisance del grande violinista che esegue senza scomporsi i ‘passi’ più spaventosi di una suonata, ma migliaia di ore di duro sacrificio lo sorreggono e lo proteggono alle spalle”. Per insistere ancora intorno all’attività del pittore nei primi anni del Novecento ci soffermiamo sul ritorno a Londra nell’aprile del 1903, dopo esservisi recato anche a febbraio. L’ambiente è diventato ormai familiare, vista la continua frequentazione dell’entourage legato a Sargent. Qui riallaccia tanti rapporti interpersonali, incontra nuovamente Mary Hunter, che lo ricontatterà pure nel luglio successivo per un invito a cena, e prende parte alla rigogliosa vivacità artistica della città. Aprile è un mese molto propizio per le gallerie d’arte. A parte le due grandi mostre dell’anno, quella della Royal Academy of Arts e l’altra alla New Gallery, vengono aperte una gran moltitudine di esposizioni più o meno rilevanti. “Nature at this season is prodigal of her gift; the output of ‘art’ is prodigality in excess”, scrivono i critici sulle pagine di “The Art Journal”. Lo stesso mese partecipa, come già detto, alla Sedicesima Mostra Estiva della New Gallery, dove presenta il citato Ritratto di James Abbott McNeill Whistler e forse anche il Ritratto di Lady Nanne Schrader. Quest’ultimo è ricordato in una lettera inviata al pittore da un amico londinese: “Ha attirato molte attenzioni lusinghiere”. E a tal proposito scrive: “Trovo sia un ritratto intelligente – i suoi occhi non parlano meno della sua bocca”. L’eco di questa esposizione è ancora vivissima l’anno seguente, quando conseguentemente alla presentazione del dipinto di Jacques-Émile Blanche nella stessa galleria, si rammenta come la sua audacia pittorica rimandi a quella del “Whistler di Boldini” della passata rassegna. Nel medesimo periodo a Parigi si apre l’esibizione della Société Nationale des Beaux-Arts e Boldini si presenta con un altro ritratto: dalla recensione nella rivista “The Studio” lo identifichiamo, in questa sede, con quello del caricaturista Sem, graditissimo dal pubblico “per la forte individualità” dell’effigiato. Si tratta certamente della raffigurazione a mezzobusto eseguita nel 1901. In una missiva Oswald Birley lo informa infatti di aver ammirato a Parigi “il piccolo ritratto di Sem”. La stampa dà molto rilievo alla sezione dei ritratti esposti che annovera opere di Sargent, il Ritratto delle sorelle Hunter, John Lavery, Ritratto di signora in marrone, e Albert Besnard, Ritratto di Madame B. “La testa di Sem dipinta dal vero racchiude ciò che il nome del pittore significherà di più duraturo”, scrive il Mauclair, per sottolineare la capacità di Boldini di mantenersi sempre fedele con freschezza e spontaneità alla propria ispirazione. E lo stesso Sem in uno degli articoli commemorativi dell’amico Giovanni ricorda i tanti ritratti da lui eseguiti, primo fra tutti quello di Whistler, “il più bel ritratto della sua carriera”, e senza essere da meno “quello di Verdi, e oserei dire, il mio”, aggiunge con approvazione. Londra e Parigi rappresentano d’altro canto in quest’epoca le capitali del ritratto moderno, Londra anche di più tra le due, e Boldini ha ormai raggiunto un grado di distinzione altissimo in tal genere, avendo cominciato a preferirlo a qualsiasi altro sin dal 1889 quando è riconosciuto “come un ritrattista di alto valore” alla Esposizione Universale di Parigi. Lui stesso ricorda questa scelta anche in una lettera al fratello Gaetano: “Prima di darmi ai ritratti facevo dei quadri di tutti i generi che sparivano facilmente perché avevo molto successo”. La prima apparizione di Boldini nel panorama artistico londinese risale a molti anni addietro, in occasione dell’Esposizione Invernale alla Dudley Gallery a Piccadilly nel 1870 dove propone tramite il mercante Joseph Hogarth di Grosvenor Square due opere: The Connoisseur e A Peep of Ferrara, come è stato possibile accertare dal reperimento del catalogo. I due lavori sono inviati direttamente da Firenze probabilmente grazie alla spinta di Michele Gordigiani che in quel periodo si trova a Londra. Giovanni si è avvicinato a Gordigiani, maestro più anziano, dopo il suo arrivo a Firenze frequentandone lo studio. Da lui riceve svariate commissioni, insieme alla possibilità di accostarsi al raffinato ambiente intellettuale inglese presente in città. Se è vero che stabilirsi a Parigi è sempre stato per Boldini l’aspirazione più ambita, rapito dalla sua malia sin dall’iniziale soggiorno del 1867 durante la visita all’Esposizione Universale avendovi trascorso oltre mezzo secolo di vita e descrivendo- ne con fervore tutti gli aspetti – le piazze famose, i ritrovi notturni, i personaggi insoliti, le vie affollate, le personalità più in vista –, non disdegna di recarsi spesso a Londra, dove già dal suo più antico approdo, tra il 1870 e il 1871, si assicura ampio consenso per l’abilità nel ritrarre fra i tanti committenti immediatamente soddisfatti della sua attività. In ottobre compare di nuovo sulla scena londinese esponendo ancora alla prestigiosa Society of Portrait Painters nella New Gallery. L’analisi degli inediti documenti d’archivio del sodalizio re- lativi a questo anno riserva delle informazioni preziose riguardo alla sua partecipazione: già dal 15 maggio nella riunione del consiglio della società, tenuta nello studio di Jonh Lavery, si decide di invitare Boldini a esporre le effigi di Mr e Mrs Lionel Phillips, ritenute adeguate alle caratteristiche che il comitato organizzatore intende imprimere alla mostra di quell’anno. I due dipinti sono realizzati da Giovanni di- rettamente in Tylney Hall a Winchfield, residenza di campagna dei ritrattati, e non a Parigi come prospettato dalla storiografia più antica. Dal rinvenimento della lettera spedita il 3 gennaio a Mary Hunter si apprende infatti la genesi precisa del lavoro: “Sono qui da 15 giorni – scrive il pittore – per fare due grandi ritratti di Monsieur e Madame Phillips. Tra 8 o 10 giorni avrò finito e avrei molto piacere di rivedervi a Londra”. Nel marzo successivo l’artigiano londinese C.M. May informa il pittore di aver recapitato a Phillips due cornici presso l’abitazione di Tylney Hall, dove la coppia di tele sarà posizionata nella sala da ballo. Svariate fotografie pubblicate in un raro opuscolo del 1909 consento- no di ammirare lo sfarzoso e curatissimo arredo dei vari ambienti della casa. L’affinità e la somiglianza con quello che fa da sfondo e da contorno nei due ritratti, in particolar modo nei diversi salotti, tra l’altro caratterizzati da pareti rivestite di pannelli intarsiati, sembrano non mostrare alcun dubbio sulla loro esecuzione in quei luoghi, avvalorando chiaramente quanto affermato dal pittore. Phillips, ricco magnate dell’industria mineraria e uomo politico appartenente all’alta borghesia sudafricana stanziata in Inghilterra, nel 1885 prende in sposa Florence Ortlepp, figlia del naturalista Albert Frederick, sovrintendente al controllo dei territori di Colesberg. I due coniugi per lunghi periodi risiedono a Londra lasciando la loro residenza di campagna di Vergelegen a Città del Capo. Molto spesso durante gli spostamenti in Europa i movimenti della coppia non coincidono tra loro. Lionel a volte attraversa il canale da solo e anche sua moglie è solita recarsi frequentemente a Parigi per rinnovare il proprio guardaroba. Dapprima Phillips si dichiara non disponibile al prestito dei lavori boldiniani per l’esposizione alla New Gallery ma poi decide di intervenire, rimarcando al presidente dell’associazione l’espresso desiderio di esporre il suo ritratto insieme a quello della moglie. Il nome di Boldini è così presente nella lista completa degli iscritti all’esposizione con entrambe le tele e sin dal 9 ottobre il segretario Hugh de Twenebrokers Glazebrook spedisce gli inviti per il giorno di ricevimento delle opere, da mostrare poi a partire dal 31 del mese. A ogni artista partecipante è suggerito di segnalare lo spazio necessario per collocare al meglio i propri preziosi lavori. Fino a ora era passata del tutto inosservata la presenza in mostra del Ritratto della signora Phillips, in coppia con quello del marito ed entrambi richiesti dagli artisti ai vertici del sodalizio. La dettagliata recensione relativa all’evento espositivo riportata su “The Art Journal” del novembre 1903, immediatamente prossima all’apertura della mostra, ricorda infatti il solo ritratto di Mr Phillips. Non stupisce che ciò sia accaduto poiché, secondo quanto recita con precisione l’aggiunta della nota in corsivo sulla lista dei lavori arrivati a destinazione, quello della signora sarebbe stato esposto solo a partire dal 16 novembre, riconfermando tuttavia con sicurezza la sua partecipazione. “Signor Boldini’s Lionel Phillips, Esq., amazing clever, where in vivaciousness is carried to an extreme”, scrivono i critici su “The Art Journal”, mettendo l’accento sui ricercati virtuosismi boldiniani oltre che sulla mirabile resa fisiognomica dell’uomo, in un ritratto a figura intera tra i più riusciti fra quelli ideati dal pittore in questi anni. In quello di Mrs Phillips, di eguale intensità espressiva, Boldini raffigura Florence già in età matura, esaltandone comunque la bellezza giunonica. Ripreso da un’angolazione piuttosto alta, mostra la donna seduta sul bordo di un morbido sofà e l’evidente torsione del busto ne accentua il raffinato e sinuoso movimento, sostenuto superbamente dall’elegantissimo e morbido abito nero. Ciò che sorprende e incanta è soprattutto la resa improvvisa dell’effetto tattile e scattante delle stoffe, la ridotta materialità degli oggetti d’arredamento, sebbene evidenziati a segno tanto da sembrare veri, toccati con la medesima posa della mano delicatamente replicata in entrambe le figure, assieme al modo di riportare la luminosità diffusa tutt’attorno. All’evento espositivo sono presenti, tra le altre, anche le opere di George Frederic Watts, Ritratto di Mrs Cavendish-Bentinck, di Albert Besnard, Ritratto di Madame Besnard e di Whistler, Rouge et noir. Quest’ultimo era membro onorario dal 1892, e allo stesso ruolo viene eletto John Singer Sargent. La signora Phillips è coinvolta in molteplici iniziative benefiche ed è inoltre molto interessata all’arte moderna, esprimendo il desiderio di farla conoscere in Sudafrica. L’illuminante incontro con Hugh Lane tramite la scrittrice Caroline Grosvenor, nell’aprile del 1909 mentre si trova a Tylney Hall, porta alla concretizzazione del progetto di una grandiosa galleria d’arte a Johannesburg. Esperto del mestiere, Lane accoglie con entusiasmo l’invito e da Londra comincia a prodigarsi negli acquisti di opere dei protagonisti più vari e delle correnti contemporanee più innovative. La prima acquisizione riguarda tre dipinti di Wilson Steer esposti da Goupil. La galleria inaugurata nel 1910 è diretta da Lane per svariati anni. Qui trova la definitiva collocazione il ritratto di Mr Lionel Phillips mentre quello della moglie è donato da lui alla City Gallery di Dublino nel 1909, dove permane tuttora. Anche il pittore Antonio Mancini esegue l’effigie di Mrs Phillips, di sei anni più tarda rispetto a quella boldiniana, realizzata a Roma, dove Florence si reca con Lane, e anch’essa conservata nella Johannesburg Art Gallery. Hugh Lane è il mecenate di Mancini per il suo soggiorno in Irlanda nell’autunno del 1907, dopo averlo conosciuto a Londra tramite Sargent. Mancini e Boldini sono due degli artisti italiani più presenti in città nei primi anni del secolo ed espongono molte volte, quasi confrontandosi, alla Society of Portrait Painters, instaurando tra i critici un acceso dibattito sulla diversità della loro pittura. Questi personaggi sembrano rimandare ancora all’ambiente sargentiano, sebbene non siano finora emersi legami diretti. Nulla ci vieta tuttavia di evidenziare, secondo il nostro sentire, delle deduzioni accettabili che giungano nondimeno a farci soprattutto riflettere e apprezzare l’evidente rilievo. Le attività economiche di Phillips in Sudafrica incentrate sull’estrazione di minerali e metalli preziosi trovano seguito in altri ricchi imprenditori, tra cui maggiori compagnie finanziarie. La privilegiata posizione sociale acquisita nel tempo li spinge ad acquisire lussuose abitazioni in Inghilterra, arricchite di prestigiose collezioni d’arte. Beit è sostenuto in questa sua iniziativa dal mercante Rodolphe Kaan, anch’egli grande investitore in Africa ma residente stabilmente a Parigi. È qui che riesce a raccogliere numerosi dipinti per conto di Beit, che costituiscono un gruppo di opere stilisticamente diverse da collocare nella sua residenza in Park Lane. Londra diventa sempre più il luogo di ritrovo di ricchi uomini d’affari e la dimora di Beit è il posto preferito intorno a cui gravita il gruppo di coloro che provengono della Germania: Edgar Speyer, Robert Mend, Thaddeus Schrader, marito di Lady Nanne, animatrice di rinomati eventi musicali e operistici, raffigurata da Boldini nel 1902. Giovanni realizza sia il ritratto di Beit che quello di Kaan: ambedue a mezzobusto e affini per l’analogia compositiva, le qualità luminose, l’esecuzione precisa e la verosimiglianza del carattere e delle attitudini. Quello di Kaan ha un posto di riguardo nella sontuosa dimora del commerciante in avenue d’Iéna a Parigi. Le tre sale del primo piano sono dedicate infatti all’esposizione della sua ricca collezione e alla fine dell’ideale visita in villa appare il ritratto di chi la abita: “una delle migliori pagine di questo artista, in cui ha reso con una intensità di vita incredibile la celebre figura del collezionista”, scrive appropriatamente il Nicolle dopo aver ammirato l’intera raccolta. Loredana AngiolinoRingraziamenti Gli archivisti di Londra, Tate Library & Archive. Naomi Miwa Saito della New Haven, Yale University Library, Beinecke Rare Book and Manuscript Library. Gli archivisti di Londra, London Metropolitan Archives. Philippa van Straaten, conservatrice al patrimonio alla Johannesburg Art Gallery di Johannesburg. Gli archivisti della Dublino, National Library of Ireland. Il professor Michael Stevenson di Città del Capo per i consigli ricevuti. I bibliotecari dell’Università di Città del Capo in Sudafrica. Tiziano Panconi, presidente del Museoarchives Giovanni Boldini Macchiaioli di Pistoia. E naturalmente Cristina Mochi e Leonarda Bray. ...CRITICA D’ARTE: DARIO DURBE’, SERNESI A SAN MARCELLO. UN CONTRIBUTO INEDITO A CINQUE ANNI DALLA MORTE.02/15/2024DurbeA cinque anni dalla scomparsa ci è parso utile restituire, in questa sede e nell’occasione di una nuova mostra dedicata ai Macchiaioli, un ricordo e uno scritto inedito di uno dei padri della critica d’arte novecentesca, Dario Durbè, impegnato per oltre sessant’anni nello studio e nella ricostruzione, specialmente in chiave storica, delle complesse vicende umane e artistiche di questo novero di rivoluzionari pittori. La sua militanza specialistica si innestò, a partire dal dopoguerra, nel filone di contributi soprattutto monografici aperto, qualche decennio prima, da altri grandi letterati come Ugo Ojetti, Enrico Somaré e dagli elzeviri di Emilio Cecchi, in bilico fra critica e prosa, nonché da quel profondo connoisseur che fu Mario Borgiotti, e la sua opera critica contribuì fin dagli anni sessanta e settanta alla modernizzazione dell’approccio alla materia e al graduale passaggio dalla critica di impostazione letterario-narrativa a quella scientifica, costantemente verificata attraverso la ricerca e lo spoglio delle fonti documentarie e, non di rado, topografiche. Nel suo registro dialettico si avvertono infatti continui rimandi a quel genere ricco di connotazioni esegetiche e filologiche, elegantemente pletorico, da “Gazzetta letteraria”, affermatosi nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, fecondo di indovinatissimi ritratti d’artista. In tal senso un esempio fra i più emblematici della bibliografia specifica è costituito dalle lettere di Giosuè Carducci e Ferdinando Martini e dalla prefazione di Gustavo Uzielli pubblicati dalla Tipografia Domenicana nell’antefatto di Scritti e Ricordi di Adriano Cecioni nel 1905, dai Ritratti letterari dedicati con uno stile squisitamente giornalistico ai grandi scrittori francesi da Edmondo De Amicis nel 1902 e dalle introduzioni di Enrico Somaré, come quella stampata per i tipi de L’Esame, per il catalogo di Signorini del 1926. Nella sterminata bibliografia durbettiana si distinguono il monumentale tomo, introdotto da Lamberto Vitali, pubblicato in italiano in occasione della grande mostra sui Macchiaioli tenutasi al Petit Palais di Parigi nel 1978, le cui pagine raccolgono una delle più organiche analisi storiche sulla nascita, l’evoluzione e la conclusione dell’esperienza macchiaiola, e la serie di pubblicazioni su Fattori, in un crescendo costante di nuove ricerche e testi filologici, alcuni ancora inediti, estremamente capillari e oggetto, da parte dell’autore, di continue e per certi versi persino ossessive puntualizzazioni e revisioni sovente chiosate a mano, costituendo la spina dorsale di un catalogo ragionato sul pittore che attendeva la luce almeno dalla fine degli anni novanta, sebbene frenato dal sopraggiungere della senilità e infine interrotto dal definitivo deterioramento dello stato di salute. Durbè nacque a Firenze nel 1923 dal matrimonio celebrato l’anno precedente fra Carlo, decoratore e antiquario di origine francese, classe 1896, titolare di un negozio di antichità in via Cairoli a Livorno, città dove viveva con la famiglia, con Amalita Niccodemi, nata a Buenos Aires nel 1900, con cui ebbe fin da bambino accesi contrasti poi risultati insanabili. Trascorse la prima infanzia godendo dello speciale affetto del nonno materno, il celebre commediografo Dario Niccodemi. La cultura vastissima ed eclettica di Durbè, affondando le radici anche ella letteratura e nella commediografia francese, spaziando dalle materie letterarie alla musica fino al teatro e al cinema, si era infatti forgiata sulle imponenti e vastissime librerie moganacee del nonno che aveva letteralmente scalato, libro dopo libro, trascurando il gioco. Conoscevano bene il suo impegno intellettuale gli amici più stretti, come i registi Paolo e Vittorio Taviani, allora animatori del Cineclub di Pisa e assidui avventori di Livorno, che come lui, intorno alla metà degli anni cinquanta, si trasferirono a Roma. Una delle sue ultime fatiche, consegnata alle stampe nel 1996, fu infatti una nuova traduzione dell’antologia di versi Les Fleurs du mal di Baudelaire, illustrata da Giulia Napoleone: a tale scopo la figlia Carla riferisce di aver intrapreso con il babbo almeno due viaggi a Parigi e io stesso conservo una copia del prezioso tomo da lui donatami con una punta di fierezza e tanto di dedica. La scomparsa di Niccodemi nel 1934 e poi quella prematura del padre, nel 1939 a soli trentatré anni, a causa di un incidente ferroviario, accorciò di certo le prospettive del giovane Durbè, che proseguì tuttavia brillantemente il percorso di studi fino a laurearsi nel 1948 all’Università di Pisa, discutendo una tesi su Fattori con Matteo Marangoni, compositore musicale, francofono e storico dell’arte di estrazione crociana, già direttore della Pinacoteca di Brera e di quella Nazionale di Parma. In quegli anni Durbè era anche un giovane militante del Partito Comunista Italiano, divenendone poi, inevitabilmente, fra i referenti di spicco per la programmazione delle attività culturali, circostanza che gli consentì di tessere una fitta rete di relazioni romane, frequentando via delle Botteghe Oscure. Nel 1956 si trasferì così, definitivamente, nella Capitale dove nel 1964 fu nominato ispettore della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, riorganizzando le collezioni di pittura dell’Ottocento fino redigerne il catalogo generale. Lavorò fianco a fianco alla storica direttrice Palma Bucarelli – al vertice del museo dal 1941 al 1975, allorquando le successe Italo Faldi – con la quale i rapporti furono proficui e di vicendevole stima sebbene non sempre disinvolti, a causa delle “famose” sfuriate della direttrice e della sua predilezione per la pittura informale e astratta. Durbè divenne soprintendente della Galleria nel 1975 e nel 1984 fu “promosso e rimosso” ispettore centrale presso la direzione generale del Ministero dei Beni Culturali, un incarico non più direttamente operativo, ricoperto fino al pensionamento avvenuto nel 1988. Sullo scorcio degli anni novanta, quando anche io abitavo in via Giulia a Roma a pochi passi dal suo studio di vicolo de’ Bovari, mi capitava sovente di scorgere per strada da lontano la sua figura imponente, con il particolare cappello a tesa larga riportato da un viaggio in Argentina e l’incedere lento sostenuto dal robusto bastone. Tornava in genere da una vicina videoteca con “il bottino” sotto il braccio, poiché, oramai anziano, il suo trasporto per il cinema era deflagrato a tal punto da “divorare”, nelle sale di mezza città o attraverso il videoregistratore di casa indifferentemente, numerosi film ogni giorno. Qualche volta lo accompagnavo fino al suo portone passeggiando per Campo de’ Fiori, affrontando gli argomenti più disparati per poi tornare sempre, inevitabilmente, alla nostra comune e più cocente passione – i Macchiaioli! – disquisendo su questo o quel dipinto, confrontandoci sullo stato delle nostre ricerche e su quelle verso le quali sarebbe convenuto orientarsi per il futuro. Fu lui a trasmettermi l’amore per i saggi profondamente introspettivi e per le strutture lessicali cristalline del Cecchi e, negli ultimi anni, dopo la pubblicazione del saggio sui quadri di Sernesi influenzati dal Calame, si propose di dedicare all’autore, dopo quella chiarificatrice di Giampaolo Daddi, una nuova monografia, alla quale lavorò volenterosamente fino a ultimarla, ma le cui pagine giacciono ancora inedite sulla sua scrivania e che oggi abbiamo l’occasione di rendere in parte note, grazie alla gentile concessione dei devoti figli Carla e Antonio. Questo suo ultimo sforzo costituisce anche una risposta e un’adeguata precisazione, alla quale ci siamo sentiti di dar voce anche se tardivamente, alla polemica innescata da Daddi – nel sopra citato volume del 1977, chiamando in causa il Cecchi, morto undici anni prima – soprattutto all’indirizzo di Giuseppe Intersimone, autore di un catalogo delle opere di Sernesi effettivamente sovrabbondante, ma certamente non nelle proporzioni suggerite da Daddi, e genericamente a “quei critici di tipo enciclopedico” e agli “studiosi titolati”: “ Ora questa necessità, questo bisogno di revisione sembrano particolarmente sentiti a Firenze, ove una combattiva pattuglia – quasi fosse condizionata dal bartaliano, filosofico pensiero – più che ritenere utile o magari indispensabile appunto rivedere nelle attribuzioni quelle opere che da critici o mercanti pur di grosso nome, nei tempi prima ricordati furono assegnate forse troppo frettolosamente ai vari pittori, spinge il proprio quacchero rigore a rimettere tutto in discussione. Astenendosi dall’esaminare con scrupolosa attenzione ogni singolo dipinto per coglierne le caratteristiche ricorrenti e le affinità stilistiche con altri lavori ‘certi’ – e procedere così alla riqualificazione dell’opera sernesiana dandole giusta credibilità – ma preferendo invece dare per già avvenuta detta selezione, essi infatti hanno in pratica accettate le molte ambiguità esistenti, avallato errori, legittimato attribuzioni dubbie, maldestre scorrettezze ed incoraggiato infine, anche se involontariamente, spudorate speculazioni ”. “San Marcello, 1861 Le fonti concordano nel riferire al 1861 un viaggio di studio del Borrani e del Sernesi nell’Appennino pistoiese, a San Marcello. Ne fa cenno per primo il Signorini (1867); ne parla brevemente il Cecioni (1905); infine Anna Franchi precisa (1902) che un tale soggiorno si protrasse per i due mesi di giugno e di luglio di quel 1861. A dire il vero, quest’ultima notizia (che è molto probabile la scrittrice apprendesse dalla viva voce del Borrani, ch’essa negli ultimi anni della vita di lui in ripetute occasioni intervistò) è stata in tempi relativamente recenti revocata in dubbio dal Daddi (1977); e la permanenza dei due artisti fra le montagne pistoiesi ridotta, a giudizio di questo studioso, solo a qualche giorno. Ma, sulla base di dati in nostre mani e considerazioni varie, ridotta, noi pensiamo, a torto. Intanto già venti, i giorni di viaggio, risultano da un gruppetto di sei disegni di Borrani che danno minutamente conto del movimento dei due amici – a Pisa il 7 giugno, a Pistoia il 10, a San Marcello il 22, a Rio Acereto popolarmente Macereto il 27, in vista della cima del Libro Aperto – . Ma che il soggiorno si sia protratto anche nel luglio sembra ben ragionevole, e sta a dimostrarlo soprattutto la stanza certamente non breve che i due amici si concessero nel vasto Podere del Pian dei Termini sulle pendici del monte Terminaccia, in prossimità di Gavinana (una Antica strada per Gavinana figura in un altro dei disegni del Borrani eseguito, a giudicare dalla sua nervosa fattura, se non il giorno stesso di quello del Libro Aperto, a poca distanza di tempo da lì). Nel vasto piano a pascolo dell’arioso nostro Podere, a 1000 metri circa sul livello del mare, i due pittori amici impiantarono, infatti, un cantiere di attività pittorica che è ben difficile immaginare chiuso in meno di qualche settimana. (Per questo luogo da noi pazientemente e miracolosamente scoperto nel 1988 si veda nella nostra Rassegna ragionata delle fonti, delle testimonianze e della bibliografia, la voce: Archivio della Chiesa parrocchiale di San Marcello Pistoiese, 1861). Borrani, vivamente attratto dalle pendici del monte che con pittoresco e suggestivo effetto panoramico chiudevano a nord-est tutta questa zona, il Terminaccia, da là, come pittore, non seppe più, per così dire, stornare lo sguardo: ovvero ne lo stornò solo di tanto in tanto: di quel poco che, dando una rapida occhiata verso il nord, gli consentiva di scorgere con assorta compiacenza la lunga catena che dal vicino Cupolino e dal lago Scaffaiolo corre allo Spigolino, alla Vista del Paradiso, giù giù fino al lontanissimo Libro Aperto: tutti luoghi che noi vediamo raffigurati in Alture della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, un dipinto di particolare importanza anche se non di gran dimensione (cm 14 × 46), e, parzialmente, in Pascolo a San Marcello (cm 19,7 × 36,5; Dini 1981, n. 23; ) nonché in Paesaggio pistoiese (cm 15,7 × 39,3; Dini 1981, n. 21; ). Ma l’interesse principale era indubbiamente, nel Borrani, per la veduta del gran monte a ridosso; e tanto più che arrivando sul posto in quell’andare del luglio, cadde inaspettatamente e festosamente sotto i suoi occhi – al panoramico unendosi così lo spettacolare – la mietitura del grano. La mietitura era per solito praticata a quelle altezze dopo la prima settimana di luglio; ed era veduta di cosa, in quella sua specialissima rusticità di montagna, straordinaria e rara, tanto da non poter perdere, il riguardante, l’occasione, se artista, di farne in un vero quadro il ritratto dal vivo. Un ritratto che il nostro Borrani concepì come tela di più che un metro e venti di base da mettere in lavorazione sul fatto, previ due studi assai suggestivi di una della due cime, uno ripreso dall’altro – cfr. in Dini 1981, la scheda n. 20 Pascolo (Paesaggio), dove è notizia delle due versioni. Complessivamente, insomma, per quanto attiene al solo Borrani, sei quadri, cinque di media e uno di rispettabili dimensioni che se anche portato all’ultima finitura in studio, come è ragionevole pensare, non poté non essere avviato contrariamente a quanto finora universalmente e da noi stessi asserito, se non all’aria aperta, attese fra l’altro le sue dimensioni ancora da cavalletto. Quanto al Sernesi, artista per sua natura introverso e raccolto e di tanto amante della quiete e del silenzio per quanto dal rumore della vita e dalla sua animazione era cordialmente attratto l’amico, traversava un momento assai particolare: una condizione di insolita e personale euforia determinata dal successo del Settembre, il quadretto dei ragazzi che rubano i fichi, molto piaciuto specialmente agli amici pittori e che presentato alla Promotrice dal primo aprile alla fine di maggio ancora animava i suoi modi quando la mietitura, dopo la prima settimana di luglio finalmente cominciò. Lo si vede chiaramente da un gruppetto di opere che per intensità, raccoglimento, velocità espressiva richiamano per l’appunto il Settembre, a cominciare dalle due stupefacenti versioni dei Buoi neri al carro, cioè la duplice effige dei due neri bovini che trascinando il carro sul quale il grano una volta segato veniva a mano a mano raccolto erano divenuti in qualche modo i veri protagonisti di quelle eccezionali giornate. Davvero splendide le immagini che il Sernesi seppe ricavarne, di una faunesca vitalità e di una rara intensità luminosa. Due opere in assoluto fra le sue più belle; e le prime, credo, da lui realizzate a Pian dei Termini, quando cioè il Sernesi rapito dal succedersi animato e veloce delle cose, riacquistava tutta la bella allegria della primavera congiunta alla capacità di esprimere insieme il ferino di quella nuova vita campestre: quasi in omaggio all’alacre collega e per solidarietà con lui che di quella nuova festa degli occhi era il vero motore e il mago. Una festa alla quale il Sernesi sembra partecipare con l’accennato insieme di opere: le due versioni dei Bovi neri, la minore e la maggiore , poi due freschissimi disegni a carboncino, bruschi, inquieti e spigolosi come gli eventi di quei giorni con raffigurati gli stessi buoi e un mandriano ; indi un disegno di paesaggio, mobilissimo e arioso che si sposa del tutto naturalmente con un piccolo dipinto: Alto Pascolo. Infine questo dipinto stesso davvero d’eccezione, mosso, sensibile e delicatamente inventivo . Insomma un Sernesi di prim’ordine, in tutto e per tutto convincente: eppure molto diverso da quello che si rivelerà il nostro artista complessivamente a San Marcello. C’è un quadro che in certo modo dà il la a questo nuovo volto dell’arte sernesiana: un quadro straordinario per contenutezza e rudimentale semplicità di affetti, eppure proprio per questo veramente toccante e quasi magico, eseguito, crediamo, subito dopo i Bovi neri né molto dissimile da quest’opera esteriormente parlando . È un quadro delicato, sommesso del quale avremo motivo di parlare a lungo; di dimensioni presso a poco uguali a quelle della maggiore delle due versioni dei Bovi neri, ma diversamente dalla medesima di ispirazione malinconica. Un quadro del quale offrono il destro al Sernesi una circostanza molto semplice e un sentimento elementare. Solevano, i fratelli Cini, mezzadri della fattoria di Pian dei Termini (una famiglia di ben quindici unità che verosimilmente ospitava nel suo casale i due nostri amici) solevano quei contadini condurre al pascolo gli armenti per i grotti e per i prati di tutta quella zona come ancora oggi si usa. Anzi – né mancherà di parere la cosa alquanto singolare – a condurvi delle mucche che sono, guarda caso, di una razza che è esattamente la medesima che in oggi il frequentatore di quei luoghi può vedere con i suoi occhi brucare tutto intorno in un percorso assai mosso ed esteso che si ripete a memoria d’uomo – eternità della vita – sempre il medesimo: trovandosi ad essere ancora fino a pochi anni fa come in quel remoto passato guardiano della mandria, il più giovane della famiglia. Nel nostro caso una piccola Annunziata che, con la benedizione di Dio, contava addirittura a quei giorni lontani soltanto sette anni (vedi nell’appena ricordata Rassegna ragionata delle fonti ecc.: Archivio della Chiesa parrocchiale di San Marcello Pistoiese, 1861). Raffaello rimase manifestamente commosso dallo spettacolo; e sull’onda di un sentimento del genere dipinse, lieve come una piuma e d’un tono raro e prezioso un quadro che nel suo nascere stesso, pur mantenendo tutta la semplicità e la cordialità del primo moto e intera e intatta tutta la grazia della sua origine si veniva insensibilmente amplificando e coniugando nel pensiero dell’autore in un qualcosa di più allusivo, di più severo e di più solenne. Ricordo che, immerso in questi pensieri, urgeva in me a quel tempo (correva il 1988) un desiderio intenso, impossibile da eludere e che alla fine soddisfeci, quello di mettermi a sedere esattamente nel luogo dove il pittore aveva assicurato anch’egli il suo sgabello. Era per cercare di intendere meglio il motivo che legava così organicamente nella mia fantasia il quadro che era l’oggetto dei miei pensieri con quanto il Sernesi, dopo l’aitanza di quel suo principio in montagna coi Bovi neri e il resto, aveva in successione di tempo operato distinguendosi nettamente nel suo lavoro da quel suo principiare. Sedutomi dunque nel luogo donde Raffaello aveva positivamente inquadrato la sua scena, mi avvidi presto che volgendo la mia testa prima a sinistra, verso la val di Lima, poi a destra verso il Cimone e i monti che là corrono a oriente, il mio quadro si trovava esattamente al centro di una fascia continua della quale le ali erano formate da due riquadri perfettamente uguali molto allungati e omogenei, entrambi di una tenuta e proporzione e di un andamento che, musicalmente parlando, era in tutto e per tutto consonante. In un attimo mi resi conto del perché il Sernesi avesse potuto decidere a un certo momento di approntare due tele di una certa grandezza (87 centimetri di base) perfettamente uguali una all’altra e capaci di inquadrare esattamente quelle due ali che con tanta suggestione si offrivano al suo sguardo di pittore. Due tele che poi effettivamente gli servirono per dipingere due opere fondamentali dell’intera sua produzione: l’Alba e la Pastura in montagna . L’Alba: un primo piano delicatamente ma vivamente scandito dal prato e dalla vegetazione sulla destra; poi il vuoto della valle e, dietro le quinte più vicine, a sinistra del Cerreto e di Colle Alto, a destra di monte Castello, tre cime lontane a formare una lunga catena: il Monte Alto (1203 metri), il Balzo Nero (1315 metri) e la Piastra (1400 metri); dappertutto le prime luci del giorno e il silenzio. Nessuna possibilità per noi di parlar di colore per- ché del quadro già appartenuto alla collezione Rosselli di Viareggio si sono purtroppo perdute le tracce subito dopo la dispersione all’asta seguita nel 1931 della raccolta medesima. Dell’Alba, la Pastura in montagna è un vero pendant. Uguale l’andamento ascendente da sinistra a destra; in tutto analoghe le solenni e maestose scansioni che movimentano ritmicamente il quadro; uguale il rilievo e lo stacco sul cielo delle chiome alberate; del tutto simile la partizione degli spazi. Ciò che solo distingue il primo quadro dal secondo è la presenza in quest’ultimo degli animali e della figura umana: una presenza che tuttavia serve a dare ancora una volta ai due quadri unità, facendo in qualche modo avvertire il primo come ‘lontananza’ il secondo come ‘vicinanza’. Una ‘vicinanza’ che in modo particolarmente suggestivo dà specialmente il suo proprio carattere alla prima piccola Pastura dalla quale il pittore – vale davvero la pena di rivelare qui e mettere in luce una tal circostanza mai osservata da nessuno – trasse puntualmente con poche varianti la stesura del primo quarto a sinistra della grande Pastura in montagna da noi appena ricordata: quel primo quarto a sinistra che è pari pari con solo qualche lieve cambiamento, ripresa diligente di quel medesimo motivo, a severo ammonimento di quanti hanno creduto di potere attribuire ad altri che al Sernesi un quadro manifestamente e indiscutibilmente suo. Eh, già! Perché se in un modo o in un altro si è giunti ad attribuire a Odoardo Borrani – assai gratuitamente d’altronde – un quadro così squisitamente e così patentemente sernesiano come la grande Pastura in montagna; non altrettanto probabile pare sia mai per essere proposta analoga attribuzione a un’operetta come la Pastura: e ciò per inequivocabili ragioni oggettive, inerenti la stessa storia esterna del quadro. Che acquistato dal Ministero della Pubblica Istruzione nel 1885 come dipinto giudicato degno di rappresentare il Sernesi nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna da personalità del livello di Giovanni Fattori, Diego Martelli, Telemaco Signorini, Cristiano Banti, venne giusto da quell’anno (che è quello probabile dell’acquisizione) a far parte delle collezioni dello Stato; poco importa se poi rimanendo infelicemente insabbiato per decenni fra depositi e uffici in ragione dell’inerte o malevola miopia dei pubblici ufficiali succedutisi a disporre dell’opera nel tempo fin quasi ai nostri giorni (si veda, a questo proposito la nostra scheda della piccola Pastura e nella Rassegna ragionata delle fonti etc., le voci Milano 1861, Firenze 1862, Corrispondenza 1884, Corrispondenza 1865). L’incongruenza nascente da questa impossibilità di attribuzione diventa tanto più contraddittoria e tanto più asseverativa della assoluta, indubitabile autografia sernesiana del grande dipinto, per via dello straordinario strettissimo nesso intercorrente fra i due nostri lavori, dei quali uno, la piccola Pastura può considerarsi non un semplice prece- dente, ma senza meno l’autentico germe dell’altro. Ho detto ‘germe’, non bozzetto, perché il nostro quadro un bozzetto non è. Esso è il vero e proprio embrione, l’origine prima e ideale dell’altro quadro. La somiglianza fra la prima e la seconda Pastura non si limita a una generica affinità di soggetto. C’è piuttosto un chiaro nesso poetico fra le due opere, non del tutto facile sulle prime da cogliere. È una singolare dinamica interna del piccolo quadro che si esplicita quasi come una dilatazione di esso nell’opera maggiore. Il paesaggio e l’andamento degli animali della piccola Pastura sono utilizzati dal Sernesi con poche varianti per dipingere solamente il primo quarto a sinistra del grande quadro. Solo la fanciullina ne è esclusa, con la sua pertica più lunga di lei; la piccola Annunziata che è come proiettata verso il centro del grande quadro, anzi per l’esattezza – perché qui sia decisamente messa da parte la casualità di questa scelta – nella sezione aurea del riquadro dell’opera costituito da due quarti centrali del dipinto che, uniti in unico specchio vengono a formare con i due quarti laterali come il panello centrale di un trittico. E tutto il grande quadro non è, compositivamente parlando, che una patetica dilatazione del piccolo quadro realizzata per richiami suggestivi proiettati a loro luogo nei punti nevralgici del dipinto. Tutto questo converge a confermarci nell’idea dell’indubitabile autografia sernesiana della grande Pastura e dell’azzardo veramente arrischiato in cui si è avventurato così alla leggera Giampaolo Daddi. Ho qui sotto i miei occhi per scrivere queste righe la monografia del Sernesi di Giuseppe Intersimone aperta per riscontri fra la tavola XL riproducente a colori la grande Pastura in montagna, qui detta Alti pascoli, e la tavola XLI che offre ugualmente a colori la versione di minor formato (che fra le due è veramente la più viva) dei Bovi neri al carro. Ed è sul serio una cosa poco credibile che il Daddi, di certo trovatosi al pari di me chissà quante volte davanti alle due immagini poste in modo così invitante proprio una al di sotto dell’altra, possa aver trascurato, come in realtà ha trascurato di osservare un elemento che non gli avrebbe mai consentito di attribuire ad altri che non al Sernesi la grande Pastura; e cioè l’uguale, identica fattura di uno dei due buoi attaccati al carro – quello di sinistra – rispetto a un altro bove che si vede libero nella grande Pastura. Mi riferisco al terzo animale in avanti fra quelli che precedono la Nunziatina in prossimità di uno dei due faggi, quello di sinistra, con quel chiarore triangolare dello scoscio, e con quel triangolo che non saprei dire altro che unico della testa, carpita non senza geniale prevaricazione dal vero per rendere in questo modo viva sul serio la testa dell’animale. Sono, questi, autentici caratteri morelliani di inequivocabile certezza che ci dànno ogni sicurezza sulla positiva identità della mano. Queste riflessioni consentono di rendersi conto di come, per il Daddi, l’attribuzione al Borrani della grande Pastura dipenda non tanto da una accurata disamina dei modi esecutivi del nostro pittore, ma Raffaello Sernesi sì da una idea generica di essere quel tipo di quadro poco consueto per il suo soggetto nell’opera di Sernesi (che a San Marcello, fatta eccezione delle due Pasture, la piccola e la grande, dipinse solo puri paesaggi), e ad essa poco conforme. Ma questa patente analogia fra la grande Pastura e la Raccolta del grano di Borrani si spiega e ha un suo chiarimento con l’aspirazione profonda del Sernesi di emulare in questo caso il suo amico e maestro, il Borrani, da lui ammiratissimo seppure di una ammirazione molto singolare combinata insieme di difficoltà e imbarazzo. Di casa Cini, nel suo grande quadro, il Borrani aveva rappresentato tre membri adulti, due uomini e una donna, raffigurati nella loro operosità quotidiana con quella semplicità insieme e cordialità affettuosa che caratterizzò costantemente in questo genere di dipinto il fare del Borrani, dal 26 Aprile 1859 a Firenze alle Cucitrici di camicie rosse. Un coinvolgimento fatto di attenzione a un impegno gentile e umanamente necessario che unisce pateticamente l’autore del quadro e i raffigurati. È un tratto cordiale cui sul piano della vita anche il Sernesi partecipa ma che viene a turbare in qualche modo il suo equilibrio interiore e la sua distaccata considerazione del sentimento. Avere posto l’occhio su una bambina cui è imposto dalla forza delle cose un lavoro del tutto superiore alle piccole risorse di lei, consente all’artista un distacco, un genere di lucidità che il Borrani non giunge a possedere e lo porta a una visione della realtà che può parere in qualche modo a petto a quella del Borrani fredda e disincantata; e ognuno avverte che non lo è perché semplicemente rispettosa di valori più alti. In altre parole, volgendo la sua attenzione a una bambina alle prese con la vita, il Sernesi riesce a trovare quel niente di disincanto che ebbe ad affrancarlo da quel fare affettuoso e da quella cordialità costituente per lui la logica vincolante del sentimento e il principale impedimento ad essere fino in fondo se stesso. Per questa via il Sernesi giunge a dire una sua parola personale che mentre si caratterizza di deferenza e di ammirazione sincera per il lavoro di un amico che gli è in qualche modo maestro, pure riesce così schiettamente sua propria da distinguersi spiritualmente e in qualche modo a contrapporsi genialmente a quella di lui in due opere squisite, altamente significanti e pur diversissime fra loro: l’una, la piccola Pastura un delicato e commosso rapimento del cuore in un momento magico e irripetibile dell’esistenza; l’altra una visione sintetica ricca di molteplici motivi – vita, natura, elevazione spirituale, meditazione, sogno – condotti a perfetta unità formale e allo stile più rigoroso attraverso il potere miracolosamente uniformante della strut- tura spaziale e soprattutto della luce e della into- nazione luminosa. Una duplice capacità astrattiva che sebbene fondata eminentemente sul senso giunge nondimeno a scoprire il tratto riflessivo e specificatamente intellettuale della personalità del nostro artista. Una qualità, questa, che fu fra i pittori macchiaioli tanto esclusivamente del Sernesi da costituire un tratto distintivo di lui, e inequivocabile. Se dopo questo excursus, si considerino ora, per mantenere sott’occhio le proporzioni complessive del nostro ‘cantiere’ dopo le già elencate ope- re del Borrani anche quelle del Sernesi, dovremo tenere presenti in primo luogo i cinque pezzi che potremo chiamare dei Bovi neri avendo cura di aggiungere subito la quasi certamente coeva piccola Pastura che nata, noi crediamo più o meno nei giorni di questo gruppo pure si distingue nettamente da esso, come abbiamo visto, per la sua ispirazione, dando l’avvio a tutta la produzione successiva del Sernesi. Questa aggiunta ci porta a sei pezzi che diventano otto con le due opere maggiori a conclusione dell’attività di Sernesi al Pian dei Termini cioè l’Alba e la Pastura in montagna (per quello che quest’ultimo dipinto abbia avuto nel corso di quell’anno 1861 a vantare di positiva- mente operato: ché il quadro come noi sappiamo dal Signorini fu portato a compimento più tardi e presentato al pubblico solo nel 1865). A questi otto pezzi ne restano da aggiungere altri otto di piccolo formato. Tre ; altri tre con la veduta del Libro Aperto e due infine : due piccole vedute in lontano che pure affini a quelle , scoprono nondimeno, per la diversità delle lontananze una sensibilità alquanto diversa, per raffinatezza lenticolare. Si tratta complessivamente di ben sedici opere che aggiunte alla grande Mietitura del grano di Borrani e ai suoi cinque quadri minori portano a ventuno – secondo almeno il nostro conteggio – i quadri dipinti dai due amici al Pian dei Termini. Tutto questo detto con molta approssimazione e corposamente parlando, onde familiarizzare per così dire con la materia di cui abbiamo preso a discorrere. Perché noi, a parte i quattro disegni del Borrani cui abbiamo or ora fatto cenno, datati al 7, al 10, al 22 e al 27 giugno; quattro disegni che mostrano del resto i nostri amici o in viaggio o non giunti comunque a destinazione, anzi solo aggirantisi in prossimità della mèta – a Macereti – il giorno 27; noi, dicevo, non possediamo elemento alcuno di natura oggettiva che ci consenta di scrivere una vera pagina di cronaca storica o quanto meno di far ordine in mezzo alla non piccola quantità di opere di Sernesi riferibili con qualche sicurezza a San Marcello. Possiamo solo dire che un presso a poco nella seconda settimana di luglio ebbe luogo con certezza la mietitura del grano cioè lo spettacolo che il Borrani si era riproposto, probabilmente su due piedi, di rappresentare. Egli ebbe dunque un gran da fare in quel giro di tempo a partire dalla prima settimana del mese onde predisporre il necessario per dipingere il quadro che si era risolto a realizzare e per mettersi all’opera, poi per porre debitamente in atto quanto propostosi. Si ha un bel dire che il quadro fu dipinto in studio e per molto tempo l’ho creduto anch’io. Sicuramente in studio esso fu portato a termine ed ebbe l’ultima mano. Ma a ben riflettere l’avvio del lavoro non è pensabile se non direttamente sul posto. Dopo tutto le dimensioni del dipinto sono dimensioni da cavalletto; e non si può considerare un puro caso la circostanza che – se questa del realizzare l’opera da cima a fondo in atelier era la strada prescelta – nessun studio per la nostra Raccolta del grano sia giunta fino a noi. Anche il Daddi che dà per scontata l’esecuzione del quadro in studio è costretto a congetturare l’esistenza di un’altra opera d’insieme andata poi perduta nel tempo. No, noi siamo convinti che, nel suo entusiasmo – un entusiasmo che si rivela dalla natura stessa dell’opera – il Borrani abbia deciso di cominciare a dipingere il suo quadro non mediante altri quadri ma direttamente in loco, sulla sua brava tela di un metro e venti di base. Quanto al Sernesi si intuiscono chiaramente due momenti nella sua attività a Pian dei Termini: uno assai breve nel quale egli è occupato più da vicino dall’impresa dell’amico; l’altro più lungo e più intimamente raccolto ove Raffaello, preso dai suoi pensieri più personali e dalle sue fantasie malinconicamente riflessive porta avanti operosamente il grosso del suo lavoro. Nel primo momento egli opera nella zona sud-orientale della piana. I bovi compivano, lavorando, un tragitto regolare dal centro del campo sotto il Terminaccia ai granai che si trovavano a mezzogiorno verso la fattoria. I due animali facevano una sosta, sovente prolungata per le occorrenze del lavoro, a mezza strada, proprio di contro le alture che dal piano coprono la vista di Gavinana. Ora, qui per l’appunto, contro questi monti, il Sernesi ritrasse i due superbi bovini quasi desideroso di cooperare col Borrani (che li dipingeva mentre ricevevano il carico), e di eternare a suo modo quel momento memorabile. Tutto questo fino a quando, assai presto, la Nunziatina non sopravvenne a richiamarlo delicatamente ai suoi sogni. Se fino a questo momento solo la zona sud-orientale del podere era stata da lui praticata da ora in poi, come visto fu quella nord-occidentale a divenire il centro di ogni sua attenzione. Ciò si può pensare essere avvenuto avvicinandosi ormai più o meno la metà del luglio. Io credo che presso a poco da questo momento Raffaello si sia dedicato a dipingere l’Alba, un’opera della quale, per sua na- tura sembra potersi pensare di esser di quelle che ti colgono di sorpresa al momento del loro primo imporsi e ti incantano; e dalle quali è disagevolissimo staccarsi una volta cominciato il lavoro. Questo fu dunque secondo noi l’impegno principale del Sernesi nella seconda metà del mese:un lavoro che si può ben pensare essenzialmente compiuto in una quindicina di giorni, anche se ancor bisognevole di precisioni e perfezionamenti che poterono aver luogo in studio col ritorno cioè del pittore a Firenze. Non è facile, purtroppo, da una semplice fotografia – ché nulla di più possediamo, come detto per far dei riscontri – capacitarsi di quello che al quadro pittoricamente parlando capitò. Qualche passo in avanti si potrà fare se, come auspicabile ci verrà concesso ancora una volta dopo tanti anni vedere finalmente di nuovo, dell’Alba, la tela originale. Quanto poi al pendant di quest’ultimo quadro, cioè la Pastura in montagna un quadro che noi sappiamo con certezza dal Signorini dipinto solo più tardi, par ragionevole domandarsi: la tela di questo dipinto rimase bianca per allora o non fu forse come pare non impossibile avviata anch’essa in qualche parte? Una risposta sicura a questa domanda, in difetto di dati oggettivi, non è sicuramente possibile. Pure la trasposizione cui noi abbiamo accennato della piccola prima Pastura a formare l’estremità sinistra della tela maggiore, invoglia indubbiamente a credere che una tale operazione possa essere stata compiuta in questo momento o quanto meno avviata. Ma forse c’è un’altra strada che ci aiuta se non a venire a capo del problema a contemplarlo util- mente da un altro angolo visuale. È cosa infatti davvero singolare che il nostro quadro ricordato dal Signorini con parole inequivocabili e con certezza esposto solo nel 1865 alla Promotrice dedicata al Centenario di Dante, ha continuato ad essere universalmente datato fino al giorno d’oggi 1861. Scrive il Signorini, parlando del soggiorno di Borrani e Sernesi a San Marcello: ‘Più tardi da certi studi fatti a San Marcello rappresentò una Pastura in montagna che riuscì di una calma sorprendente e d’una intonazione luminosissima’. Pure, nonostante la chiarezza evidente di queste parole che fra l’altro richiamano in maniera davvero patente il dipinto al quale si riferiscono, tutti gli autori dalla Franchi (1902) al Callari (1909); dall’Ojetti e dal Somaré (entrambi 1928) alla Wittgens (1932); dal Pischel (1945) alla Cazullo (1947); dal De Logu (1955) al Giardelli (1958); al Borgiotti (1964); allo Spalletti (1985) alla Broude (1987); alla Bietoletti (2001) alla Dini (2002); giù giù ai repertori come il Benedite-Fogolari o il Galletti-Camesasca, il Bolaffi, l’Allemandi; tutti insomma, dicevo, datano il nostro quadro 1861. E noi stessi – dobbiamo ammetterlo – noi stessi che siamo perfettamente coscienti delle parole del Signorini, che anzi, proprio sulla base di quelle, siamo giunti a riconoscere un secondo viaggio compiuto dal Sernesi a San Marcello al momento di licenziare il suo quadro nel 1865 ; ebbene noi stessi non ce la siamo sentita di spostare ad altro luogo che questo un quadro che sta perfettamente qui e non altrove. I quadri dipinti dal Sernesi a San Marcello nel 1865 non si accompagnano punto al nostro che invece vive di una sua propria vita qui, giustappunto, e solo qui. Senza far torto all’estetica che rigorosamente impone la coincidenza perfetta dell’intuire e dell’operare artistici, e non accetta che una poesia, un dipinto o altra produzione d’arte possa essere ‘pensata’ a prescindere dalla forma tangibile che l’artista di volta in volta gli dona; è pur ammissibile, come cosa che storicamente si dà, una atmosfera o un ‘clima’ che a un certo momento si produca e si imponga per ragioni artistiche, psicologiche, sentimentali, morali, intellettuali, e che altri giunga a idealizzare nel ricordo come un qualcosa di stante e di non soggetto a cambiamento, a questa astrazione rispettosamente attenendosi, come a un qualsiasi altro suo oggetto di rappresentazione, quasi volesse proporre il suo fare come un omaggio a quella determinata atmosfera, a quel ‘clima’. Ora di un vero e proprio ‘clima’ è lecito parlare nel nostro caso. Un clima che nel ’61 si impone giustamente ai nostri amici e al quale con la sua Pastura in montagna il Sernesi mostrò di sapersi mantenere fedele fino all’ultimo negli anni fra il ’61 e il ’65, nonostante il tempo passasse e anche ad onta delle cose nuove e diverse che frattanto gli sbocciavano fra le mani. Sernesi fu artista dai tempi di maturazione lentissimi; come quello che non si sapeva stacca- re da un’idea convincente che gli fosse germinata in seno. E a parte le sue movenze estremamente caute da noi osservate nel suo periodo giovanile e accademico nei confronti per esempio del Ciseri, ci è ben noto, fra l’altro in materia di quadri di dimensione e del periodo ormai maturo un ulteriore dipinto che avviato addirittura nel ’59, fu da lui concluso solo nel ’64, ed è la Vigilanza un’opera sulla quale avremo motivo di tornare a parlare nel capitolo a questo successivo. Un problema che tuttavia Raffaello risolse non già nello spirito e nel clima della sua prima invenzione, come era avvenuto nel caso della Pastura in montagna, ma sì, tutto al contrario (purché la continuità della prima idea si mantenesse) sul fuoco del più recente suo fare, quello che, come vedremo, lo condurrà ai suoi primi capolavori di Castiglioncello. Ma per tornare a noi e venire ai tempi e ai motivi della lavorazione della Pastura in montagna dopo il ritorno a Firenze del nostro Sernesi da San Marcello, non è facile, atteso il silenzio totale delle fonti e forse non è neanche lecito ipotizzare qualcosa. Ma, in difetto delle fonti, per rendersi miglior conto di come in realtà dovettero andare le cose, viene a soccorrerci la conoscenza dei fatti. Sì, è vero, è abbastanza logico che a un quadro capace di rivelarsi dopo quattro anni di aspettati- va dell’importanza del nostro il Sernesi abbia seriamente pensato di attendere subito dopo il suo ritorno in patria (che fu nell’agosto del 1861); ed un indizio di questa probabile sua immediata applicazione lo si ha da una curiosa circostanza e cioè che nell’anno successivo, il ’62, la piccola Pastura cioè il quadretto della Nunziatina fu dopo essere stato presentato a Milano nel ’61, esposto di nuovo alla Promotrice di Firenze ma non con il suo titolo originario, la Pastura, bensì, come ciò avvenisse per attrazione, col titolo che sarà poi quello del quadro maggiore cioè la Pastura in montagna. Ma, se questo è vero, bisogna pur riconoscere che quel 1862 fu per il Sernesi pittore un anno per davvero micidiale e poi funesto in ragione del sempre più serio aggravarsi della malattia del padre di lui, Pietro e infine della sua morte seguita nel maggio che impose a Raffaello drastiche misure di rinunzia alla propria vocazione di pittore a tutto vantaggio del suo mestiere di incisore medaglista onde potere fronteggiare le impellenti necessità di famiglia. Non si conoscono opere di Sernesi riferibili con certezza al 1862 e nemmeno a tutto il ’63. È questo il periodo di vera e propria rinunzia alla pittura di cui ci parla il Signorini; e quando finalmente nel corso del ’64, essendo il nostro riuscito a trovare un modus vivendi fra il suo mestiere di incisore e la sua passione, si applica di nuovo alla pittura, egli è così invaso dal clima di animazione che gli si crea tutt’intorno per effetto della ripresa che l’ordine delle cose ormai gli consente a soddisfacimento della sua autentica vocazione, quella della pittura, da non potersi nemmeno concepire il ritorno col pensiero a un’opera che, non di certo dimenticata, pure imponeva per sua stessa natura un atteggia- mento distaccato, consapevole e riflessivo. C’era, a quell’ora, nel nostro Raffaello, unito alla gioia della scoperta dei motivi plastici e luminosi capaci di condurlo all’animato insieme di opere che vivono intorno alla superba Marina di Castiglioncello, l’impeto di un riscatto morale, di quasi una rivincita, nei confronti di quei suoi contemporanei di studio che, come sappiamo dal Signorini, altro non avevano visto nel temporaneo distacco dalla pittura che un’impotenza a esercitare l’arte sua: un’arte – scrive l’amico – che egli aveva ‘brillantemente studiata’ e che ora dava patentemente i suoi frutti: per l’appunto quelle opere nuove nelle quali – sentenzia il Signorini – ‘egli mostrò chiaramente agli artisti la portata grande del suo ingegno’. Assai poco, tutto questo fervore si confaceva a quell’atteggiamento distaccato, consapevole e riflessivo cui or ora accennavamo. Un atteggiamento che invece si produsse del tutto naturalmente l’an- no successivo, il 1865, allorché, riposando alquanto quel fuoco, viene ancora una volta a prodursi nell’arte di Sernesi, un’alternanza di ispirazione quell’alternanza già da noi studiata di ‘patetismo e ironia’ che gli concede ora l’esito in assoluto più alto che noi si conosca in questo filo di ispirazione, cioè le due splendide versioni di Grano maturo . Solo in questo clima del tutto al riparo dalla passione poteva ora finalmente aver luogo la nitida, poeticissima vena del tutto distaccata e astraente del nostro capolavoro: la Pastura in montagna. Insomma, riepilogando in breve la assai complessa storia del nostro quadro, si può tranquilla- mente asserire che esso fu concepito e cominciò a prendere forma a un tempo stesso con la piccola Pastura, cioè il quadro della Nunziatina e con l’Alba; che Raffaello cominciò a dipingere la grande Pastura molto probabilmente negli ultimi giorni della sua permanenza a Pian dei Termini e che nel corso del ’61 dopo il ritorno di lui a Firenze, il quadro non mancò di esercitare ancora, del continuo, la sua attrazione sul nostro, dall’autunno di quest’anno fino al maggio del ’62 quando Pietro Sernesi venne a mancare. Salvo che, nell’imbrogliatissima situazione e psicologica ed economica nella quale il nostro si venne a trovare, un tal genere di attrazione, ebbe il carattere dopo la parentesi esaltante di libertà creativa cui quelle settimane in montagna avevano dato luogo, soltanto di un riflesso assai spento di quello che era stato. Fu un errore evidente, da parte nostra, quello di credere che nel ’62, la Pastura in montagna potesse essere già stata esposta. È quanto in un raptus ci avvenne di scrivere nel 1975-76, in occasione della mostra di Monaco e del Forte del Belvedere a Firenze. Ma troppi elementi ci mancavano a quel momento per avvederci dell’azzardo, e per renderci conto dell’improbabilità di una datazione che nel corso del tempo finì per mostrare, per molte incongruenze, la sua fragilità. No, solamente nel ’65, il quadro, difficile dire da qual momento fin qui abbandonato, ma – noi crediamo – per l’appunto da quel ’62 fu ripreso da Raffaello e finalmente finito, proponendosi ormai all’artista le condizioni più favorevoli alla sua esecuzione, cioè quella poeticissima vena astraente e spiritualizzante di cui dicevamo. Tre elementi di fondo guidarono il Sernesi nella esecuzione relativamente rapida del dipinto: primo l’esigenza in lui del tutto naturale di dar infine compimento a un lavoro che, nato in un momento particolarmente felice della sua propria formazione continuava a vivere nel suo cuore come un sogno che esigeva istantemente di essere realizzato; secondo: il compiacimento dell’avvertire giunto finalmente il momento, dopo tanti impedimenti e incertezze, di porre in atto un disegno tanto a lungo vagheggiato e dar concretezza, come sùbito in effetti fu, al progetto di un ritorno sui luoghi che avevano veduto nascere quell’esordio tanto suggestivo e attraente; terzo: il desiderio intenso di un ragguaglio sensibile con Odoardo Borrani. Quel Borrani che il Sernesi ammirava e amava e desiderava emulare, purgato nondimeno a suo sentimento da qualsiasi richiamo illustrativo e patetico e rinvigorito semmai – per usare le parole del Cecchi – da quel ‘robusto sapore intellettuale così affine a quello della antica pittura toscana in sembiante ligia al vero e potentemente astrattiva: un senso d’ordine, di dominio, di austerità’. Questa l’autentica impressione che suscita la Pastura in montagna, tale e quale si presenta semplicemente all’occhio, attraverso misure che sanno veramente d’antico. Il quadro è diviso in quattro parti uguali, ma le due parti centrali, formando un solo riquadro, danno luogo come accennato a un vero e proprio trittico e vita a un giuoco di tre e di quattro, reiterantesi per misteriosa simmetria in più luoghi dell’opera (la pastorella e i due faggi, la pastorella e le due mucche che le son più vicine; le quattro mucche in primo piano nella parte sinistra del dipinto, a petto alle tre più lontane che vengono loro incontro; i tre cespugli nella estrema destra del quadro distanziati appena da un quarto, etc.). Essa stessa, la bambina pastora occupa la sezione aurea della parte centrale del trittico. Ma tutto questo non ha niente, assolutamente niente di voluto, di ricercato, anzi esce con una innocenza commovente dalla pura necessità del dire e del raccontare. Il moto visivo si espande perfettamente armonico e delicato in senso inverso al moto rea- le degli animali, avviato – senza che alcuno se ne avveda – dalle due mucche all’estrema sinistra che rese minuscole dalla distanza si avviano spiccando per contrasto sul cielo, verso tutti gli altri animali, che avanzano lentamente brucando e andando loro piano piano incontro, a occupare l’intera parte sinistra della composizione come sostenuta a distanza dalla presenza della pastorella e dall’ultima delle mucche che, qualche metro più addietro, si affaccia tranquilla dal quarto e ultimo riquadro a chiudere la scena. Il moto degli animali è magistralmente scandito da spazi via via decrescenti numerosamente come in una composizione poetica, che offrono il senso corposo di quell’andare suggestivamente misto di ordinario e di solenne. Questo insieme di notazioni che viene per così dire a geometrizzare corposamente il racconto sa come magicamente conferire alle immagini una tenuità e una leggerezza senza pari rendendo come incorporeo ogni oggetto. E sono questi i caratteri capaci di conferire alla tela quella che il Signorini definisce ‘la calma sorprendente’ del dipinto. Ma nulla, veramente nulla quanto ‘l’intonazione luminosissima’ di quest’opera – che è l’altro requisito del quadro che il Signorini indovina –, serve, con la sua astratta impalpabilità, col giuoco delle sue inflessioni limpide e variate, a dare al nostro dipinto il suo autentico significato che è il riconducimento dei moti del cuore alla superiore impassibilità della forma. Il difficile problema di un quadro portato a termine a distanza di quattro anni dalla sua primitiva e originaria impostazione ci ha distolto, finora, per gran tratto, dall’attenzione nei confronti di qualche altro dipinto che invece sicuramente eseguito nel corso del ’61 non sempre è del tutto agevole situa- re nel contesto che in realtà lo comprende. Non è difficile avvedersi che un quadro come Altipiano al mattino già appartenuto al Fattori è da immaginarsi eseguito mentre il Sernesi attendeva alla esecuzione dell’Alba; tanto non solo l’andamento inventivo e poetico di queste montagne richiama quel quadro, ma le cime raffigurate sono riferibili con certezza alla Val di Lima, ancorché riguardata da un diverso angolo visuale. Una considerazione, questa, che pari pari può ripetersi per altri due quadri: un limpido e fermissimo piccolo dipinto di proprietà Pinottini raffigurante delle Montagne ; e un’operetta da tutti finora assegnata a Cristiano Banti, come da lui proveniente, ma che a nostro giudizio è da assegnare senza alcun dubbio al Sernesi, cioè Colline toscane . Meno facile da situare sono tre piccoli dipinti che uniti fra loro dal- la veduta del Libro Aperto, potrebbero essere messi in relazione con una delle pagine del taccuino di Borrani qui da noi pubblicate: quella contrassegna- ta dalla scritta: ‘Libro Aperto. Veduta da Macereti, presso San Marcello’. Il Sernesi potrebbe avere anch’egli, da Macereti o da qualche luogo prossimo a questa località, ripreso il Libro Aperto – ciò che non è contraddetto dalla prospettiva delle tre opere –; nel qual caso avremmo anche una data di riferimento, il 27 di giugno, la data cioè del primo giungere dei due amici nella zona dove essi si fermarono poi per un mese, cioè il vasto podere di Pian dei Termini dove essi operarono quello che fin qui abbiamo tentato di raccontare. Sarebbe dunque, questa, una vera e propria premessa del precedente racconto che si prolunga poi nei due ultimi quadretti da noi qui presentati, le due vedute in lontano che stanno abbastanza a sé, come visto in una delle quali è ancora una volta chiaramente visibile il Libro Aperto.” di Tiziano Panconi...LO STILE DI ALBERTO SAVINIO01/16/2024savinioAlberto Savinio, Roger et Angélique, 1931, olio su tela, 90 x 73 cm È prerogativa del genio sottrarsi alla competizione del vivere quotidiano. Questo il destino di alcuni fondamentali scienziati del ‘900, come Marconi o Einstein. Le loro menti brillantissime, affollate di balenanti allucinazioni e poi di vertiginose, lancinanti, profondissime ponderazioni, sempre al limite dell’impossibilità del riscontro oggettivo e scientifico, vagavano per strade immaginifiche, impraticabili e inesplorate, accarezzando il miraggio di gettare un ponte fra realtà e utopia. Così anche Andrea de Chirico, in arte Alberto Savinio, coltivò le sue più profonde inclinazioni artistiche di sensibilissimo compositore musicale e spumeggiante scrittore e, nel pieno della sua parabola espressiva e umana, di geniale pittore surrealista. La realtà ispirò e stimolò Savinio che, attuando un processo di traslitterazione intellettuale di tipo metafisico, vi attinse, prendendo per sé tipi estetici idealizzati, scartati da una società in pieno declino morale e smarrimento ideologico che, negli anni Venti, piangeva ancora i morti e gli orrori della guerra, né aveva dimenticato i miti di successo e libertà della Belle Epoque, né l’aria dolciastra e irrespirabile delle fitte cortine di fumo che attraversavano gli scintillanti e artificiosi caffè concerto della Parigi di fine e inizio secolo. Savinio, il cui primo latte erano stati i canti epici della mitologia greca, si considerava prima di tutto un narratore e così, apparentemente senza affrontare un vero e proprio noviziato, a ventisette anni iniziò a dipingere tutto ciò che aveva già in mente. La sua prosa onirica, velata di malinconia, era avvolta da sentimentalismi e nostalgie di epoche remote. Fu altare di gloria eterna che fu del divino Achille e degli eroi della Guerra di Troia e del Piave, affondando le radici nei moniti moralistici del patriottismo risorgimentale, riaffermati nel “ventennio” dalla propaganda fascista. Armò le bestie, come galli, lupi, licantropi, cervi, mostri marini e centauri, di una corporeità umana e di una spiritualità altera e divina e, per questo, soprannaturale. Questi animali, a metà fra uomini e dei, divennero i prototipi estetici del suo racconto leggendario, traboccante di intrepidi eroi che, con i piedi ben piantati fra prospettive surreali eppure intimissime di oscillanti mura domestiche, volgevano i torsi forti e i loro sguardi fieri, talvolta smarriti, al di fuori delle finestre metafisiche, poste in mezzo ai confini fra due universi concomitanti e inconciliabili che guardandosi evocavano l’ignoto. I piani inclinati e mobili di quelle pareti affacciate sul mare fosco parevano pronti a cedere improvvisamente, in un baleno, al primo soffio di maestrale, a seppellire sotto un cumulo di macerie quel mondo inquieto e sensibile, eccitato da una immaginazione fantastica e struggente…”....GIOVANNI BOLDINI E GABRIELE D’ANNUNZIO: IL PIACERE01/08/2024articleEstetismo, decadentismo e fortunysmo fra pittura e letteratura attraverso un carteggio inedito di Gabriele d’Annunzio di Tiziano PanconiIntorno al 1871, anno in cui Boldini si trasferì a Parigi da Firenze, dove aveva fatto parte del gruppo dei Macchiaioli, la città era frequentata una moltitudine di artisti, per lo più riuniti in specifici quartieri, trasformati in cités d’artistes.Sulla rive droite della Senna, nella zona tra la collina di Montmartre e Place Pigalle – dove il peintre italien visse, al numero 11, fino al 1886 – si trovavano vere e proprie “case d’artista”. Qui, non di rado, i pittori condividevano gli spazi di lavoro per poi incontrarsi a dipingere all’aria aperta e, più tardi, ritrovarsi ai caffè come La Nouvelle Athènes, al numero 9 della stessa piazza, dove l’amico degli anni fiorentini, Marcellin Desboutin, aveva trasferito il quartier generale degli impressionisti, allontanandoli dal fin troppo affollato Café Guerbois.Sullo stile di vita bohémien e sul clima decadente delle piccole strade che correvano sconnesse fra gli slarghi e le vigne della vecchia provincia agricola, la sera si apriva lo scandaloso sipario del demi-monde, inondato dall’alcol e gremito di prostitute i cui clienti abituali erano gli stessi mariti ed “irreprensibili” capifamiglia della borghesia francese che le disprezzavano di giorno.Se per i parnassiani la bellezza costituiva un valore assoluto e trasmissibile, le novelle filosofie decadentiste imputavano al progresso e alla produttività la responsabilità di ostacolare la felicità, percepita quale necessità spirituale insopprimibile dell’umanità, producendo laceranti frustrazioni proprio in un’epoca in cui la borghesia stava assistendo alla caduta dei dogmi tradizionali e di quei valori ritenuti fino ad allora universali. Questo clima di decadenza morale fu spesso abbracciato dagli artisti ma anche denunciato quale controverso contraltare e vera cartina di tornasole di un protocollo sociale sovraccarico di pretese virtù etiche, a tutti gli effetti effimere e vacillanti, oramai destituite dalla storia e dall’ondata di progresso generata sia dalle conquiste della scienza e della tecnologia sia dall’avvento delle moderne filosofie liberali.Del resto, l’inedito riversarsi in città di centinaia di pittori, ognuno tormentato dalla permanente ossessiva necessità di individuare scorci, figure e soggetti originali, dette luogo a una sorta di “studio di massa” senza precedenti – al limite della psicoanalisi – dei luoghi, degli ambienti e delle attitudini di quell’umanità così eterogenea.Lo stesso Boldini, dapprima, coniò un’originale sintassi di vibrante e raffinata resa naturalistica, rettificata da continui virgolettati, per poi avvertire tutti i limiti di quella cifra così esasperatamente puntuale ed educata che per sua stessa natura rigettava i concetti drammatici, risultando inadeguata a scandagliare gli abissi dell’anima. Dunque “il mestiere”, benché magistrale, e perfino la trascrizione iperrealista del soggetto non supportavano più, completamente, quella sensibilità psicologica dell’opera alla quale si poteva pervenire soltanto attraverso particolari e inedite soluzioni stilistiche in forte dissonanza con i canoni di grazia e armonia borghesi, sebbene questi fossero condivisi e generosamente remunerati, per esempio, dalla ricca clientela della Maison Goupil, principale committente del maestro italiano dal 1871 al 1878. Intorno al 1879 – quando la prosa dannunziana si legava attraverso la pubblicazione di Primo Vere alla metrica barbara di Carducci – per Boldini fu tempo di una svolta radicale e il registro narrativo, certamente anche grazie alle sperimentazioni condotte nella garçonnière di rue Pierre Demours durante gli incontri con l’intrigante contessa de Rasty, fu improvvisamente attraversato dalla rappresentazione emozionale dell’amante, colta in pose esplicite e sinuose, nuda o fra le lenzuola, liberando una prorompente carica erotica e sensuale che costituì anche in seguito la traccia, e sovente la sottotraccia, della ritrattistica muliebre da cavalletto. Trasportato dalle vertigini della passione, l’artista si era cioè trovato quasi occasionalmente a spingere con foga, per la prima volta senza censure, su un pedale narrativo sfrenato, a lui sconosciuto, mediato soltanto dall’eleganza del filtro stilistico, quasi come se i propositi creativi e culturali posti in opera a termine degli appuntamenti clandestini potessero riscattare o restituire dignità a quella relazione fosca, fondata sul tradimento della compagna e del marito.Il contesto socio-culturale nel quale era calata la descrizione eccitata e voyeuristica dei muliebri umori non era diverso da quello messo più tardi in prosa dallo stesso d’Annunzio, quando Andrea Sperelli, protagonista de Il piacere, preparava con maniacale attenzione l’alcova vivendo lo spasmo dell’attesa di Elena, quali atti di pretesa redenzione estetica e morale: “aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d’Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d’argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto. L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz’ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov’era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell’appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L’ansia dell’aspettazione lo pungeva così acutamente ch’egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale”“Boldini” scrive Sgarbi “fu il primo pittore italiano a tornare europeo, a poter sostenere, ben più di Hayez rispetto a Delacroix o di Fattori rispetto a Courbet, il confronto alla pari con gli artisti della sua generazione”. Si era cioè rinnovato quel primato avanguardistico della pittura sulla letteratura che dalla metà degli anni Sessanta aveva visto Signorini ispirare l’analisi verista di Capuana, che ne mutuò gli assunti concettuali nel loro evolversi innovativo, riconoscendo per primo che “io devo a lui come divenni novelliere”.Nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento arte e letteratura intrapresero quella che più tardi Croce definì “la grande conversazione”, partecipando alla quale gli autori avevano circoscritto i propri perimetri d’indagine agli orizzonti domestici della provincia con i suoi costumi regionali e le sue peculiarità locali che, in reciproco dialogo, definivano il quadro culturale ed estetico dell’Italia post-unitaria.La Toscana – in cui d’Annunzio ambientò nel 1902 La pioggia nel pineto e dove trascorse parte della propria vita, prima a Prato nell’adolescenza, conoscendovi il primo amore Giselda Zucconi, e poi a Settignano, nella sfarzosa villa La Capponcina a fine e inizio secolo – fu epicentro di sodalizi artistici e crocevia di pittori, scultori e letterati.Fra questi, solo per portare alcuni esempi funzionali al nostro discorso, lo scrittore Carlo Placci, in rapporti con Boldini, nonché, come d’Annunzio, legatissimo all’amico dei Macchiaioli Enrico Nencioni e tutti e tre collaboratori della rivista romana “Cronaca Bizantina” – edita dal 1881 al 1886 – sulle cui pagine il giovane poeta mise a fuoco le proprie strategie culturali e narrative, plasmando i primi miti, intrisi di ricercata eleganza decadentista.Il letterato e politico fiorentino Ferdinando Martini, che aveva favorevolmente recensito Primo vere, fu tra le personalità di riferimento del periodoUna rappresentazione emotiva e dettagliata, serratissima, stilisticamente speculare, come vedremo, mutatis mutandis, alle sovrabbondanti e spagnoleggianti morfologie pittoriche michettiane. D’Annunzio adottava le strutture sintattiche del “verbo dipinto” dell’amico e conterraneo abruzzese, arricchendo i periodi continuamente interrotti e complicati da incisi e aggettivazioni ripetitive, proprio come l’estenuante reiterarsi, ritmico e musicale, di quei leggeri “tocchi” di finitura imbevuti di mezze tinte, stesi sugli incarnati per romperne la monotonia cromatica, rendendoli vivi e palpitanti.Non diversamente dal Boldini e dal Michetti del decennio precedente, d’Annunzio faceva sfoggio di uno stile – tanto artificioso e carico di preziosismi da sopraffare il soggetto della narrazione – sciorinato attraverso il susseguirsi di licenze poetiche e arrotondamenti musicali, come parole tronche o allungate con le doppie vocali finali e il sistematico ricorrere ad antitesi fonetiche.Se questa concettuale adesione al fortunysmo di Michetti, per quanto mediata, postuma e letterariamente traslata, non è stata fin qui evidenziata dalla critica, fu lo stesso poeta invece a chiarire, in apertura al romanzo, il suo massiccio debito metodologico nei confronti del pittore abruzzese: “a te che sei tanto acuto conoscitor di anime quanto artefice di pittura io debbo l’esercizio e lo sviluppo della più nobile fra le facoltà dell’intelletto: debbo cioè l’abitudine dell’osservazione e debbo, in ispecie, il metodo”.La cifra boldiniana, fino ad allora abituata alle minuziose puntualizzazioni dei minuscoli pennellini e impareggiabilmente sciorinata nelle finitissime tavolette alla fiamminga che avevano incantato il pubblico di mezzo mondo nel lustro precedente, nel volgere di qualche mese subì una sostanziale trasformazione.Insomma, ciò che per quasi tutti gli anni Settanta era stato ritenuto scomposto ed esteticamente sconveniente, fu recuperato e assunto quale fruttuoso terreno di ricerca. Si assistette così al moltiplicar- si delle prospettive inverosimili, delle figure fuori centro tagliate alla Degas, instabili o riprese come a loro insaputa, estranee a ogni atteggiamento posato.Se sul versante letterario fu più tardi, nel 1889, che Mastro don Gesualdo, e con lui il Verismo di Verga, morirono, idealmente, fra le braccia del giovane aristocratico abruzzese Andrea Sperelli, su quello pittorico, Boldini, con circa un decennio di anticipo, aveva aperto la strada all’estetismo e al fascino decadente delle sue donne cerulee, seppellendo, per lo meno sul proscenio internazionale, il realismo dei Macchiaioli, evolutosi man mano in quel naturalismo che aveva a quell’altezza esaurito il suo impulso riformatore romano, così come riconobbe quale esempio di artista aristocratico il ritrattista concittadino Michele Gordigiani, la cui figlia era una della più intime amiche della compagna Eleonora Duse e con la quale Gabriele intrattenne rapporti e corrispondenze epistolari, trasfigurando nel romanzo Il Fuoco la malattia di Michele e lo sconforto della ragazza: “vide l’orribile minaccia sospesa sul genio di quell’artefice ch’era parso fecondo e infaticabile come un maestro antico, come un Della Robbia o un Verrocchio”.D’Annunzio riconosceva all’insigne pittore fiorentino un ruolo di primo piano nella cultura figurativa ottocentesca, così come, a suo modo, aveva fatto molti anni prima, nel 1864, appena giunto a Firenze da Ferrara, il giovanissimo Zanin, presentandosi a lui con una lettera di raccomandazione del padre pittore Antonio: “Egli ha celebrato l’eterno femminino, per quella sua precipua sapienza tecnica in cui primeggiava, maestro nell’esprimere il brillio di un gioiello, il broccato di una veste, il trinato candore di un merletto, il roseo imperlato di uno scollo di dama altera, l’incarnato velluto d’un volto di una bella donna”.Gabriele era profondamente affascinato da Giulietta Gordigiani, tanto da corteggiarla e trasfigurarla, sempre nel Fuoco, nel personaggio di Donatella Arvale.Sulla scorta delle esperienze maturate durante il primo soggiorno romano del poeta, Il piacere fu scritto a Francavilla al Mare tra il 1888 e il 1889, in una sorta di lungo ritiro contemplativo, ospite nell’ex convento e dimora del fraterno amico Francesco Paolo Michetti, “il Conventino”. Circostanza che, prima ancora del successivo incontro con Gordigiani, ci appare l’ennesimo punto di contatto tra la biografia di d’Annunzio e quella di Boldini, espressione inoltre della precisa volontà dello scrittore di avvalersi delle arti figurative quali fonti di libera ispirazione poetica ed estetica, per affrancarsi così dal rischio d’esser tacciato di plagio, come ac- cadde all’indomani della pubblicazione di quello che fu definito dalla critica il “poema moderno”. Una sorta di esaltazione e, al contempo, di condanna dell’ambiente nobiliare capitolino che costitutiva tuttavia, in quel momento, un fertile terreno per l’emancipazione sociale del poeta intento nel descrivere i propri moti interiori, tutto sommato inconsistenti per l’economia del racconto.Se la coeva letteratura francese di Huysmans gli aveva offerto spunti stilistici, metaforici e narrativi rispetto ai quali sarebbe risultato più prudente mantenere una certa distanza, la pittura, pur correndo su un binario espressivo apparentemente parallelo, ben accentuava invece quel senso di profonda eleganza spirituale che specialmente nell’opera di Michetti, fra il 1875 e il 1880, fu portata ai limiti della prefigurazione di un simbolismo estetizzante e talvolta onirico, tanto da spingere il poeta a scrivere: “il Corpus Domini era per tutti noi, cercatori irrequieti di un’arte nuova, il Verbo dipinto”. E ancora nel 1883, recensendo La raccolta delle zucche (cat. 153) dipinta dall’amico dieci anni prima, scriveva: “Il paesaggio è di Bolognano, un fondo di paesaggio roccioso, erto, a strisce bianche, grigiastre e rossigne di ruggine, che fa pensare a una rui- na immane di pagoda, a frammenti di colossi buddistici. Un vapore latteo fluttua nell’aria mattinale, sale dalli acquitrini verdognoli; e le piante dalle larghe foglie ruvide serpeggiano, s’intrecciano sul terreno, si levano in gruppi per l’alto. Per quella freschezza vaporosa vengono uomini e donne con enormi ‘cocozze’ in capo, ‘cocozze’ gialle, verdi chiazzate, di strane forme, di strani contorcimenti, simili a teschi mostruosi, a vasi guasti da gonfiori, a trombe barbariche, a tronchi di grossi rettili disseccati. È un effetto fantastico, quasi di sogno; ma la scena è reale”.Al pari della maniera boldiniana del cosiddetto “periodo Goupil” (1871-1878), lo stile di Michetti era permeato dello “spagnolismo” alla Fortuny, che tanta eco conobbe non soltanto in patria ma anche fra Roma, Napoli e Parigi, carico di espedienti pittorici e suggestionanti effetti cromatici.Il poeta subì il fascino abbagliante di quegli orditi grafici traboccanti di luccichii, vedendovi definitivamente imboccata la strada di quel progresso tanto atteso e la provvidenziale opposizione al concetto di separazione fra l’opera e l’autore, chiamato da Capuana a scomparire ed eclissarsi nel testo, tacendo le sue opinioni, affinché gli eventi si producessero in perfetta autonomia, trascritti quale fedele specchio moralistico della realtà.Così, commentando l’Esposizione di Napoli del 1877, Adriano Cecioni ammoniva un certo tipo di pittura considerata di facile presa, poiché riteneva “sbagliato quando il tono è alterato per renderlo più bellino e seducente, come fanno tutti i seguaci di Fortuny principiando da Michetti, Dalbono e compagnia bella; i quali non hanno studiato mai la natura, ma gli artifizi del loro Caposcuola”.Michetti, al contrario, sul versante iconografico era rimasto imbrigliato proprio nella religiosa adesione a quella poetica naturalista, di cui Cecioni fu tra i principali teorici, tipicamente italiana e in particolare centro-meridionale e vernacolare, mentre sul piano stilistico era in effetti caduto mani e piedi nelle mirabolanti spire del fortunysmo che, pur con le sue ridondanze, negli anni Settanta costituì tuttavia una provvidenziale opportunità di internazionalizzazione del vocabolario espressivo non soltanto michettiano. Una certa vena folkloristica caratterizzava del resto, a prescindere, quella stagione della pittura del Mezzogiorno d’Italia e così Michetti, nel Corpus Domini, spiegava senza incertezze le sue eloquenti iperboli cromatiche, traslate, anche nei timbri retorici, nel successivo gergo dannunziano. Boldini, dal canto suo, aveva invece in parte disattivato il prototipo fortunyano, mutuandone le accezioni peculiari, specialmente quelle ornative, trascrivendole però in un contesto lessicologico estremamente complesso e va- rio. Se ne svincolò più facilmente nei ritratti e questo fu possibile soprattutto grazie alla sua strabiliante padronanza tecnica, capace di ridurre nell’ombra perfino il geniale caposcuola catalano, con il quale, nei primissimi anni Settanta, si avvicendò quale pittore capofila della Maison Goupil.Gli echi del fortunysmo non risuonarono tuttavia a lungo nel modellato dell’artista e sullo scorcio de- gli anni Settanta quegli schemi descrittivi, fin lì di grande successo, furono completamente scompaginati dal definitivo crescendo della sua sensibilità I luccicanti saloni dei fastosi palazzi patrizi entro i quali avevano conversato deliziosamente damine e marchesini svanirono per sempre dall’immaginario pittorico boldiniano, e con essi il gusto Impero e le certezze sociali nelle quali si era riconosciuta fino ad allora l’alta borghesia francese.Se Boldini avvertì la portata progressista dell’Impressionismo – le cui radici affondavano nel concetto di “impressione” coniato dai Macchiaioli sul finire degli anni Cinquanta e ratificato da Cecioni negli antesignani scritti del periodo: “L’opera d’arte non è altro che lo sviluppo di un’impressione ricevuta” – pur tuttavia non ne condivise in toto, come del resto era accaduto anche per la sintesi macchiaiola, la completa rarefazione dell’ordito pittorico. Questo, non soltanto perché l’artista era già impegnato nelle originali sperimentazioni sulla mimica e sulla dinamicità dei corpi posti in rapporto attivo con l’ambiente circostante, ma anche perché il definirsi, via via, di questo nuovo glossario verteva proprio sulla possibilità di intervenire soltanto ed espressamente a parziale modifica e alleggerimento dell’impianto descrittivo naturalista e delle sue salde strutture luministiche e prospettiche.Dunque quella svolta così radicale – in un certo senso antinaturalista e, in nuce, a vocazione espressionista – non poteva risultare funzionale al suo singolare approccio con la realtà, filtrata attraverso una lente quanto meno bifocale, capace persino,come nelle vedute veneziane, di ribaltare il cono ottico, sfocando i primi piani e mettendo inaspettatamente a fuoco particolari situati in lontananza. Insomma, se l’osservazione del vero permaneva quale impianto strutturale, a partire da quei fondi violacei degli interni plumbei e inquieti come cieli autunnali, si spiegavano invece concerti di pennellate ritmiche e liberissime. Mentre le tonalità, accordate sulle scale dei grigi, evocavano riflessioni sentimentalistiche, riverberando tutta la malinconia manifestata dagli sguardi struggenti e penetranti.Certamente seducente, modernissimo e permeato di invitanti liquefazioni pittoriche, l’impressionismo di Monet tracciava una rotta irreversibile verso rese atmosferiche e figurazioni impalpabili di cui anche Boldini tenne conto.La familiarità con Michetti non dovette costituire il miglior viatico per la realizzazione di un rap- porto di amicizia fra d’Annunzio e Boldini, visto che quest’ultimo non apprezzò che il principale premio della giuria alla prima Biennale di Venezia del 1895 fosse stato conferito al pittore abruzzese per La figlia di Jorio, mentre quello del Governo a Segantini e a lui soltanto il riconoscimento dei Comuni della Provincia.Il poeta lasciò in Boldini – sostanzialmente indifferente alla letteratura – l’impressione di un uomo e scrittore eccentrico, estremamente accentratore nell’accezione più plateale del termine e per questo ingombrante, tanto che, in una lettera al fratello Gaetano scritta molti anni più tardi, lo definì: “esagerato alla d’Annunzio”Il tema della decadenza dei valori, affrontato con Il piacere nell’ottavo decennio del secolo, era stato ed era ancora centrale nelle riflessioni estetiche e negli aggiornamenti concettuali e tematici di Boldini, che già intorno al 1879 aveva dipinto una serie di opere fondamentali, fra le quali per esempio Giovane coppia su un divano nello studio di un pittore, oltre a rappresentare i locali affollati delle Folies Bergère, realizzati in una commistione di mobilità pittorica ed eccitazione materica estenuanti. Nel 1886 la crisi sociale era stata presa a soggetto dalla rivista “Le Décadent”, da Paul Verlaine e dai cosiddetti poeti maledetti: “Sono l’Impero alla fine della decadenza, che guarda passare i grandi Barbari bianchi componendo acrostici in- dolenti in uno stile d’oro dove danza il languore del sole”.Nel quadro delle dinamiche sociali che legarono Boldini a d’Annunzio, emigrato in Francia fra il 1910 e il 1915 per sfuggire ai creditori, un posto speciale spetta certamente alla figura di Mary Dorothea Labouchère, detta Dora, emblematicamente ritratta dal maestro in una serie di dipinti nel 1910.La ragazza era figlia di Henry Du Pré Labouchère, politico e giornalista inglese trasferitosi definitivamente a Firenze nel 1906, dove morì nel 1912 la- sciandole un enorme patrimonio.Nel 1903, a soli diciannove anni, la futura ereditiera convolò a nozze con Carlo Emanuele, marchese di Rudinì, il cui padre, Antonio Starrabba, latifondista e per due volte primo ministro del Regno, era stato a sua volta ritratto da Boldini nel 1898.Carlo volle quale testimone di nozze l’amico Gabriele, il quale in quell’occasione conobbe, o forse rivide, la sorella Alessandra, giovane vedova del marchese di Riparbella, Marcello Carlotti, morto tre anni prima, dal quale aveva avuto due figli.Approfittando dell’assenza, in quei mesi, della Duse impegnata in una tournée europea, Gabriele corteggiò e presto sedusse l’avvenente aristocratica, cui in precedenza non erano mancati illustri pretendenti, come il gran duca Sergio della famiglia imperiale russa, e che fin da ragazzina aveva mostrato un temperamento esuberante, essendo stata anche espulsa dal collegio del Sacro Cuore di Trinità dei Monti a Roma proprio a causa della sua indole inquieta.Così, nel marzo del 1904, giunta a termine la convivenza con la Duse, Alessandra, ribattezzata dal poeta Nike per la sua bellezza statuaria, nonostante l’assoluta contrarietà del fratello e del padre, decise di trasferirsi con il poeta a Settignano, alla villa La Capponcina.L’anno successivo, ammalatasi di un tumore all’utero, subì un complesso intervento chirurgico e, ricoverata nella clinica fiorentina Villa Natalia, fu premurosamente assistita dal compagno ma ignorata dal padre e dal fratello, ancora furibondi con d’Annunzio. Sebbene la ragazza si fosse ristabilita, il poeta, come di consueto, perse progressivamente interesse nei suoi confronti e la relazione si spense fra 1906 e il 1907, quando l’ex amante si trasferì a Roma, prendendo poi i voti.Fu più tardi, intorno al 1913, che il rapporto fra il poeta e la famiglia Rudinì avrebbe assunto contorni più opachi, oggi in parte ricostruibili grazie al ritrovamento di tre lettere inedite indirizzate da d’Annunzio a Dora, dalle quali si evince la loro relazione segreta, finora sconosciuta alle cronache storiche ma di cui avevamo in passato dichiarato il sospetto, originato da taluni episodi conflittuali fra lei e la Casati, cioè l’amante per così dire “nota”, che non avrebbero trovato altrimenti giustificazione. Nel primo foglio in particolare, “l’amorevole” d’Annunzio scrisse a Dora di aver chiesto sue notizie alla marchesa Casati alla quale, evidentemente, non passarono inosservate queste attenzioni apparentemente innocenti. Pubblichiamo dunque qui, per la prima volta, queste pagine, gelosamente custodite in segreto per oltre un secolo, quali anello di affrontato nel nostro saggio pubblicato nel catalogo della grande mostra boldiniana del 2017 al Vittoriano di Roma.Lettera 1, Fogli 1-2 Ex libris in alto a sinistra: “Per Non Dormire” Cara Dora, Anche io vorrei tanto vedervi. L’altra sera ho domandato di voi alla Marchesa Casati. Verrò a pranzare con voi domani, venerdì 13 Ma a che ora? Il vostro molto devoto amico Gabriele d’AnnunzioP.s. Hotel Maurice, Questo giovedìLettera 2, Fogli 3-4 Ex libris in alto a sinistra: “Per Non Dormire” Cara terribile Dora, Ho preso freddo ieri tornando in automobile e stamani ho un vile raffreddore che mi impedirà di avvicinarmi stasera a una creatura divina come voi siete.Sono qui pieno di tristezza e umiliazione. Mi sentirei un poco consolato se potessi sperare di avere una di queste prossime sere, la gioia e il supplizio di accompagnarvi. Quando?Com’eravate strana e dolce ieri! Una magnolia con un cuore nero. Il vostro GabrieleP. S. Rue Bassano III Questo giovedì?Lettera 3, Fogli 5-6Cara Dora, Chiedo perdono umilmente di non aver risposto l’altra volta. Sono impegnato per sabato, ma mi libero per avere la gioia di rivedere i vostri occhi. A sabato sera, dunque, Grazie. Il vostro per sempre Gabriele.Alla luce di questa scoperta e sebbene l’ex libris in alto a sinistra di alcune di queste lettere, certe scritte in francese, rimandi al soggiorno d’oltralpe del Vate intorno al 1913, vi è da domandarsi quando ebbe effettivamente inizio la loro intesa e se possa essere addirittura ricondotta al decennio precedente. Un’ulteriore testimonianza del rapporto fra Gabriele e i Labouchère è fornita da un telegramma in entrata, conservato nell’Archivio Generale del Vittoriale degli Italiani, datato 16 marzo 1904, sulla cui busta è genericamente annotato Labouchere (madame): “Quando lei ritorna a Firenze voglio vederla e parlare per la figlia di Giorgio Alexander di Londra vuole comperarla. Prego rispondere. Madame Labouchere, Villa Cristina”. Recando l’indirizzo fiorentino non è dato tuttavia sapere se la missiva sia stata trasmessa da Dora o dalla madre Henrietta Hodson.La contiguità con la famiglia Rudinì si consolidò ufficialmente, come abbiamo detto, prima con la partecipazione del poeta al matrimonio di Dora in qualità di testimone e poi con l’inizio della sua relazione con la cognata Alessandra.In queste epistole si coglie forse il senso più profondo del decadentismo morale dannunziano, di cui Il piacere oggi potrebbe forse apparirci la sublimazione letteraria, in una combinazione fra vis inventiva e una realtà che va oltre ogni borghese immaginazione, nella quale vi è, evidentemente, una completa identificazione fra narratore e protagonista. Probabilmente la stessa di quando, nel 1910, vestendo nel romanzo di mortali passioni Forse che sì forse che no i panni dell’aviatore Paolo Tarsis, attribuì una vicenda incestuosa alla famiglia patrizia degli Inghirami di Volterra.Una cifra narrativa che ne Il piacere esplora gli abissi della coscienza, annichilita dai fremiti potenti e primitivi della passione che scandiscono e riempiono i tempi psicologici dell’ozio, prevalendo sempre e comunque sui dubbi intellettualistici e sui moniti etici indotti dal pensiero occidentale.Se il mito del superuomo ricorre nella letteratura e nella vita sregolata e inimitabile del poeta, è lo stesso Boldini a delineare in alcune lettere il pro- filo psicologico altrettanto irrequieto e estroverso di Dora, definendola “Perfida Divina! appellativo che ricorre nel linguaggio di entrambi gli artisti – e lamentandosi perché “impossibile acchiapparla, tenerla! Sfugge, ritorna, risfugge”. Nonostante le innumerevoli amicizie in comune lascino immaginare un rapporto punteggiato di contatti più o meno occasionali ma comunque frequenti, nonché vissuto nella piena consapevolezza dei rispettivi ruoli di eccezionali protagonisti della cultura del tempo, gli incontri documentati fra il pittore e il poeta risultano invece piuttosto esigui.Uno fra i primi e più importanti, che invero sembrerebbe presupporre una familiarità precedente, avvenne nel settembre del 1908, quando Boldini raggiunse d’Annunzio a Venezia per incontrare la marchesa Casati “a colazione all’Hotel Danieli. Era vestita di nero da capo a piedi, adornata con una delle sue ormai usuali e lunghe collane di perle. Mentre si avvicinava al tavolo, notò che il suo amante non era solo. Accanto a lui c’era un uomo sulla sessantina e oltre, tanto basso quanto grassoccio, con due baffi grigi spessi e un paio di occhiali a stringinaso agganciati in cima al naso bulboso. Proprio in quel momento, la collana di Luisa si ruppe, e le perle rimbalzarono sul pavimento del ristorante. L’estraneo si gettò carponi a offrirle aiuto”.Oltre ai reciproci saluti, ripetutamente affidati, negli anni a venire, a comuni amici, il loro rapporto si sostanziò, in effetti, in due presunte raccomandazioni del poeta in favore dell’artista, che il 23 maggio 1911 chiedeva la sua intercessione per poter realizzare il ritratto dell’attrice e ballerina russa Ida L’vovna Rubinštejn con il costume da guerriero indossato nell’esibizione parigina de Il martirio di san Sebastiano, composto per lei da d’Annunzio. La condivisione di punti di vista espressivi sensibili estremamente sofisticati, a tratti capaci di manifestarsi quali francesismi in Italia e italianismi in Francia, sovente disallineati e fuori dal coro, li accomunò nella denuncia della crisi morale dei ceti sociali più alti che, alle soglie del Novecento, avrebbero dovuto affrontare la sfida della radicale e imprevedibile riorganizzazione delle società di massa. Secondo le loro parafrasi artistiche e letterarie, le élite avrebbero potuto preservarsi e sopravvivere a sé stesse, nutrendo il culto della bellezza, avvertita, in senso lato, quale sunto di eleganza e stile di vita, imprescindibilmente legato alla valorizzazione dell’arte, della cultura e dell’io.Le ricerche per il saggio sono state condotte dall’autore in collaborazione con Ludovico Baldelli, Elisa Larese e Vittoria Meoni, ricercatori del Museo archives Giovanni Boldini Macchiaioli di Pistoia.Si ringraziano Alessandro Tonacci e Roberta Valbusa, responsabili degli Archivi e Biblioteche della Fondazione del Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera, per le puntuali indicazioni fornite in merito ai carteggi dannunziani lì conservati.Di Tiziano PanconiIntorno al 1871, anno in cui Boldini si trasferì a Parigi da Firenze, dove aveva fatto parte del gruppo dei Macchiaioli, la città era frequentata una moltitudine di artisti, per lo più riuniti in specifici quartieri, trasformati in cités d’artistes.Sulla rive droite della Senna, nella zona tra la collina di Montmartre e Place Pigalle – dove il peintre italien visse, al numero 11, fino al 1886 – si trovavano vere e proprie “case d’artista”. Qui, non di rado, i pittori condividevano gli spazi di lavoro per poi incontrarsi a dipingere all’aria aperta e, più tardi, ritrovarsi ai caffè come La Nouvelle Athènes, al numero 9 della stessa piazza, dove l’amico degli anni fiorentini, Marcellin Desboutin, aveva trasferito il quartier generale degli impressionisti, allontanandoli dal fin troppo affollato Café Guerbois.Sullo stile di vita bohémien e sul clima decadente delle piccole strade che correvano sconnesse fra gli slarghi e le vigne della vecchia provincia agricola, la sera si apriva lo scandaloso sipario del demi-monde, inondato dall’alcol e gremito di prostitute i cui clienti abituali erano gli stessi mariti ed “irreprensibili” capifamiglia della borghesia francese che le disprezzavano di giorno.Se per i parnassiani la bellezza costituiva un valore assoluto e trasmissibile, le novelle filosofie decadentiste imputavano al progresso e alla produttività la responsabilità di ostacolare la felicità, percepita quale necessità spirituale insopprimibile dell’umanità, producendo laceranti frustrazioni proprio in un’epoca in cui la borghesia stava assistendo alla caduta dei dogmi tradizionali e di quei valori ritenuti fino ad allora universali. Questo clima di decadenza morale fu spesso abbracciato dagli artisti ma anche denunciato quale controverso contraltare e vera cartina di tornasole di un protocollo sociale sovraccarico di pretese virtù etiche, a tutti gli effetti effimere e vacillanti, oramai destituite dalla storia e dall’ondata di progresso generata sia dalle conquiste della scienza e della tecnologia sia dall’avvento delle moderne filosofie liberali.Del resto, l’inedito riversarsi in città di centinaia di pittori, ognuno tormentato dalla permanente ossessiva necessità di individuare scorci, figure e soggetti originali, dette luogo a una sorta di “studio di massa” senza precedenti – al limite della psicoanalisi – dei luoghi, degli ambienti e delle attitudini di quell’umanità così eterogenea.Lo stesso Boldini, dapprima, coniò un’originale sintassi di vibrante e raffinata resa naturalistica, rettificata da continui virgolettati, per poi avvertire tutti i limiti di quella cifra così esasperatamente puntuale ed educata che per sua stessa natura rigettava i concetti drammatici, risultando inadeguata a scandagliare gli abissi dell’anima. Dunque “il mestiere”, benché magistrale, e perfino la trascrizione iperrealista del soggetto non supportavano più, completamente, quella sensibilità psicologica dell’opera alla quale si poteva pervenire soltanto attraverso particolari e inedite soluzioni stilistiche in forte dissonanza con i canoni di grazia e armonia borghesi, sebbene questi fossero condivisi e generosamente remunerati, per esempio, dalla ricca clientela della Maison Goupil, principale committente del maestro italiano dal 1871 al 1878. Intorno al 1879 – quando la prosa dannunziana si legava attraverso la pubblicazione di Primo Vere alla metrica barbara di Carducci – per Boldini fu tempo di una svolta radicale e il registro narrativo, certamente anche grazie alle sperimentazioni condotte nella garçonnière di rue Pierre Demours durante gli incontri con l’intrigante contessa de Rasty, fu improvvisamente attraversato dalla rappresentazione emozionale dell’amante, colta in pose esplicite e sinuose, nuda o fra le lenzuola, liberando una prorompente carica erotica e sensuale che costituì anche in seguito la traccia, e sovente la sottotraccia, della ritrattistica muliebre da cavalletto. Trasportato dalle vertigini della passione, l’artista si era cioè trovato quasi occasionalmente a spingere con foga, per la prima volta senza censure, su un pedale narrativo sfrenato, a lui sconosciuto, mediato soltanto dall’eleganza del filtro stilistico, quasi come se i propositi creativi e culturali posti in opera a termine degli appuntamenti clandestini potessero riscattare o restituire dignità a quella relazione fosca, fondata sul tradimento della compagna e del marito.Il contesto socio-culturale nel quale era calata la descrizione eccitata e voyeuristica dei muliebri umori non era diverso da quello messo più tardi in prosa dallo stesso d’Annunzio, quando Andrea Sperelli, protagonista de Il piacere, preparava con maniacale attenzione l’alcova vivendo lo spasmo dell’attesa di Elena, quali atti di pretesa redenzione estetica e morale: “aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d’Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d’argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto. L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz’ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov’era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell’appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L’ansia dell’aspettazione lo pungeva così acutamente ch’egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale”“Boldini” scrive Sgarbi “fu il primo pittore italiano a tornare europeo, a poter sostenere, ben più di Hayez rispetto a Delacroix o di Fattori rispetto a Courbet, il confronto alla pari con gli artisti della sua generazione”. Si era cioè rinnovato quel primato avanguardistico della pittura sulla letteratura che dalla metà degli anni Sessanta aveva visto Signorini ispirare l’analisi verista di Capuana, che ne mutuò gli assunti concettuali nel loro evolversi innovativo, riconoscendo per primo che “io devo a lui come divenni novelliere”.Nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento arte e letteratura intrapresero quella che più tardi Croce definì “la grande conversazione”, partecipando alla quale gli autori avevano circoscritto i propri perimetri d’indagine agli orizzonti domestici della provincia con i suoi costumi regionali e le sue peculiarità locali che, in reciproco dialogo, definivano il quadro culturale ed estetico dell’Italia post-unitaria.La Toscana – in cui d’Annunzio ambientò nel 1902 La pioggia nel pineto e dove trascorse parte della propria vita, prima a Prato nell’adolescenza, conoscendovi il primo amore Giselda Zucconi, e poi a Settignano, nella sfarzosa villa La Capponcina a fine e inizio secolo – fu epicentro di sodalizi artistici e crocevia di pittori, scultori e letterati.Fra questi, solo per portare alcuni esempi funzionali al nostro discorso, lo scrittore Carlo Placci, in rapporti con Boldini, nonché, come d’Annunzio, legatissimo all’amico dei Macchiaioli Enrico Nencioni e tutti e tre collaboratori della rivista romana “Cronaca Bizantina” – edita dal 1881 al 1886 – sulle cui pagine il giovane poeta mise a fuoco le proprie strategie culturali e narrative, plasmando i primi miti, intrisi di ricercata eleganza decadentista.Il letterato e politico fiorentino Ferdinando Martini, che aveva favorevolmente recensito Primo vere, fu tra le personalità di riferimento del periodoUna rappresentazione emotiva e dettagliata, serratissima, stilisticamente speculare, come vedremo, mutatis mutandis, alle sovrabbondanti e spagnoleggianti morfologie pittoriche michettiane. D’Annunzio adottava le strutture sintattiche del “verbo dipinto” dell’amico e conterraneo abruzzese, arricchendo i periodi continuamente interrotti e complicati da incisi e aggettivazioni ripetitive, proprio come l’estenuante reiterarsi, ritmico e musicale, di quei leggeri “tocchi” di finitura imbevuti di mezze tinte, stesi sugli incarnati per romperne la monotonia cromatica, rendendoli vivi e palpitanti.Non diversamente dal Boldini e dal Michetti del decennio precedente, d’Annunzio faceva sfoggio di uno stile – tanto artificioso e carico di preziosismi da sopraffare il soggetto della narrazione – sciorinato attraverso il susseguirsi di licenze poetiche e arrotondamenti musicali, come parole tronche o allungate con le doppie vocali finali e il sistematico ricorrere ad antitesi fonetiche.Se questa concettuale adesione al fortunysmo di Michetti, per quanto mediata, postuma e letterariamente traslata, non è stata fin qui evidenziata dalla critica, fu lo stesso poeta invece a chiarire, in apertura al romanzo, il suo massiccio debito metodologico nei confronti del pittore abruzzese: “a te che sei tanto acuto conoscitor di anime quanto artefice di pittura io debbo l’esercizio e lo sviluppo della più nobile fra le facoltà dell’intelletto: debbo cioè l’abitudine dell’osservazione e debbo, in ispecie, il metodo”.La cifra boldiniana, fino ad allora abituata alle minuziose puntualizzazioni dei minuscoli pennellini e impareggiabilmente sciorinata nelle finitissime tavolette alla fiamminga che avevano incantato il pubblico di mezzo mondo nel lustro precedente, nel volgere di qualche mese subì una sostanziale trasformazione.Insomma, ciò che per quasi tutti gli anni Settanta era stato ritenuto scomposto ed esteticamente sconveniente, fu recuperato e assunto quale fruttuoso terreno di ricerca. Si assistette così al moltiplicar- si delle prospettive inverosimili, delle figure fuori centro tagliate alla Degas, instabili o riprese come a loro insaputa, estranee a ogni atteggiamento posato.Se sul versante letterario fu più tardi, nel 1889, che Mastro don Gesualdo, e con lui il Verismo di Verga, morirono, idealmente, fra le braccia del giovane aristocratico abruzzese Andrea Sperelli, su quello pittorico, Boldini, con circa un decennio di anticipo, aveva aperto la strada all’estetismo e al fascino decadente delle sue donne cerulee, seppellendo, per lo meno sul proscenio internazionale, il realismo dei Macchiaioli, evolutosi man mano in quel naturalismo che aveva a quell’altezza esaurito il suo impulso riformatore romano, così come riconobbe quale esempio di artista aristocratico il ritrattista concittadino Michele Gordigiani, la cui figlia era una della più intime amiche della compagna Eleonora Duse e con la quale Gabriele intrattenne rapporti e corrispondenze epistolari, trasfigurando nel romanzo Il Fuoco la malattia di Michele e lo sconforto della ragazza: “vide l’orribile minaccia sospesa sul genio di quell’artefice ch’era parso fecondo e infaticabile come un maestro antico, come un Della Robbia o un Verrocchio”.D’Annunzio riconosceva all’insigne pittore fiorentino un ruolo di primo piano nella cultura figurativa ottocentesca, così come, a suo modo, aveva fatto molti anni prima, nel 1864, appena giunto a Firenze da Ferrara, il giovanissimo Zanin, presentandosi a lui con una lettera di raccomandazione del padre pittore Antonio: “Egli ha celebrato l’eterno femminino, per quella sua precipua sapienza tecnica in cui primeggiava, maestro nell’esprimere il brillio di un gioiello, il broccato di una veste, il trinato candore di un merletto, il roseo imperlato di uno scollo di dama altera, l’incarnato velluto d’un volto di una bella donna”.Gabriele era profondamente affascinato da Giulietta Gordigiani, tanto da corteggiarla e trasfigurarla, sempre nel Fuoco, nel personaggio di Donatella Arvale.Sulla scorta delle esperienze maturate durante il primo soggiorno romano del poeta, Il piacere fu scritto a Francavilla al Mare tra il 1888 e il 1889, in una sorta di lungo ritiro contemplativo, ospite nell’ex convento e dimora del fraterno amico Francesco Paolo Michetti, “il Conventino”. Circostanza che, prima ancora del successivo incontro con Gordigiani, ci appare l’ennesimo punto di contatto tra la biografia di d’Annunzio e quella di Boldini, espressione inoltre della precisa volontà dello scrittore di avvalersi delle arti figurative quali fonti di libera ispirazione poetica ed estetica, per affrancarsi così dal rischio d’esser tacciato di plagio, come ac- cadde all’indomani della pubblicazione di quello che fu definito dalla critica il “poema moderno”. Una sorta di esaltazione e, al contempo, di condanna dell’ambiente nobiliare capitolino che costitutiva tuttavia, in quel momento, un fertile terreno per l’emancipazione sociale del poeta intento nel descrivere i propri moti interiori, tutto sommato inconsistenti per l’economia del racconto.Se la coeva letteratura francese di Huysmans gli aveva offerto spunti stilistici, metaforici e narrativi rispetto ai quali sarebbe risultato più prudente mantenere una certa distanza, la pittura, pur correndo su un binario espressivo apparentemente parallelo, ben accentuava invece quel senso di profonda eleganza spirituale che specialmente nell’opera di Michetti, fra il 1875 e il 1880, fu portata ai limiti della prefigurazione di un simbolismo estetizzante e talvolta onirico, tanto da spingere il poeta a scrivere: “il Corpus Domini era per tutti noi, cercatori irrequieti di un’arte nuova, il Verbo dipinto”. E ancora nel 1883, recensendo La raccolta delle zucche (cat. 153) dipinta dall’amico dieci anni prima, scriveva: “Il paesaggio è di Bolognano, un fondo di paesaggio roccioso, erto, a strisce bianche, grigiastre e rossigne di ruggine, che fa pensare a una rui- na immane di pagoda, a frammenti di colossi buddistici. Un vapore latteo fluttua nell’aria mattinale, sale dalli acquitrini verdognoli; e le piante dalle larghe foglie ruvide serpeggiano, s’intrecciano sul terreno, si levano in gruppi per l’alto. Per quella freschezza vaporosa vengono uomini e donne con enormi ‘cocozze’ in capo, ‘cocozze’ gialle, verdi chiazzate, di strane forme, di strani contorcimenti, simili a teschi mostruosi, a vasi guasti da gonfiori, a trombe barbariche, a tronchi di grossi rettili disseccati. È un effetto fantastico, quasi di sogno; ma la scena è reale”.Al pari della maniera boldiniana del cosiddetto “periodo Goupil” (1871-1878), lo stile di Michetti era permeato dello “spagnolismo” alla Fortuny, che tanta eco conobbe non soltanto in patria ma anche fra Roma, Napoli e Parigi, carico di espedienti pittorici e suggestionanti effetti cromatici.Il poeta subì il fascino abbagliante di quegli orditi grafici traboccanti di luccichii, vedendovi definitivamente imboccata la strada di quel progresso tanto atteso e la provvidenziale opposizione al concetto di separazione fra l’opera e l’autore, chiamato da Capuana a scomparire ed eclissarsi nel testo, tacendo le sue opinioni, affinché gli eventi si producessero in perfetta autonomia, trascritti quale fedele specchio moralistico della realtà.Così, commentando l’Esposizione di Napoli del 1877, Adriano Cecioni ammoniva un certo tipo di pittura considerata di facile presa, poiché riteneva “sbagliato quando il tono è alterato per renderlo più bellino e seducente, come fanno tutti i seguaci di Fortuny principiando da Michetti, Dalbono e compagnia bella; i quali non hanno studiato mai la natura, ma gli artifizi del loro Caposcuola”.Michetti, al contrario, sul versante iconografico era rimasto imbrigliato proprio nella religiosa adesione a quella poetica naturalista, di cui Cecioni fu tra i principali teorici, tipicamente italiana e in particolare centro-meridionale e vernacolare, mentre sul piano stilistico era in effetti caduto mani e piedi nelle mirabolanti spire del fortunysmo che, pur con le sue ridondanze, negli anni Settanta costituì tuttavia una provvidenziale opportunità di internazionalizzazione del vocabolario espressivo non soltanto michettiano. Una certa vena folkloristica caratterizzava del resto, a prescindere, quella stagione della pittura del Mezzogiorno d’Italia e così Michetti, nel Corpus Domini, spiegava senza incertezze le sue eloquenti iperboli cromatiche, traslate, anche nei timbri retorici, nel successivo gergo dannunziano. Boldini, dal canto suo, aveva invece in parte disattivato il prototipo fortunyano, mutuandone le accezioni peculiari, specialmente quelle ornative, trascrivendole però in un contesto lessicologico estremamente complesso e va- rio. Se ne svincolò più facilmente nei ritratti e questo fu possibile soprattutto grazie alla sua strabiliante padronanza tecnica, capace di ridurre nell’ombra perfino il geniale caposcuola catalano, con il quale, nei primissimi anni Settanta, si avvicendò quale pittore capofila della Maison Goupil.Gli echi del fortunysmo non risuonarono tuttavia a lungo nel modellato dell’artista e sullo scorcio de- gli anni Settanta quegli schemi descrittivi, fin lì di grande successo, furono completamente scompaginati dal definitivo crescendo della sua sensibilità I luccicanti saloni dei fastosi palazzi patrizi entro i quali avevano conversato deliziosamente damine e marchesini svanirono per sempre dall’immaginario pittorico boldiniano, e con essi il gusto Impero e le certezze sociali nelle quali si era riconosciuta fino ad allora l’alta borghesia francese.Se Boldini avvertì la portata progressista dell’Impressionismo – le cui radici affondavano nel concetto di “impressione” coniato dai Macchiaioli sul finire degli anni Cinquanta e ratificato da Cecioni negli antesignani scritti del periodo: “L’opera d’arte non è altro che lo sviluppo di un’impressione ricevuta” – pur tuttavia non ne condivise in toto, come del resto era accaduto anche per la sintesi macchiaiola, la completa rarefazione dell’ordito pittorico. Questo, non soltanto perché l’artista era già impegnato nelle originali sperimentazioni sulla mimica e sulla dinamicità dei corpi posti in rapporto attivo con l’ambiente circostante, ma anche perché il definirsi, via via, di questo nuovo glossario verteva proprio sulla possibilità di intervenire soltanto ed espressamente a parziale modifica e alleggerimento dell’impianto descrittivo naturalista e delle sue salde strutture luministiche e prospettiche.Dunque quella svolta così radicale – in un certo senso antinaturalista e, in nuce, a vocazione espressionista – non poteva risultare funzionale al suo singolare approccio con la realtà, filtrata attraverso una lente quanto meno bifocale, capace persino,come nelle vedute veneziane, di ribaltare il cono ottico, sfocando i primi piani e mettendo inaspettatamente a fuoco particolari situati in lontananza. Insomma, se l’osservazione del vero permaneva quale impianto strutturale, a partire da quei fondi violacei degli interni plumbei e inquieti come cieli autunnali, si spiegavano invece concerti di pennellate ritmiche e liberissime. Mentre le tonalità, accordate sulle scale dei grigi, evocavano riflessioni sentimentalistiche, riverberando tutta la malinconia manifestata dagli sguardi struggenti e penetranti.Certamente seducente, modernissimo e permeato di invitanti liquefazioni pittoriche, l’impressionismo di Monet tracciava una rotta irreversibile verso rese atmosferiche e figurazioni impalpabili di cui anche Boldini tenne conto.La familiarità con Michetti non dovette costituire il miglior viatico per la realizzazione di un rap- porto di amicizia fra d’Annunzio e Boldini, visto che quest’ultimo non apprezzò che il principale premio della giuria alla prima Biennale di Venezia del 1895 fosse stato conferito al pittore abruzzese per La figlia di Jorio, mentre quello del Governo a Segantini e a lui soltanto il riconoscimento dei Comuni della Provincia.Il poeta lasciò in Boldini – sostanzialmente indifferente alla letteratura – l’impressione di un uomo e scrittore eccentrico, estremamente accentratore nell’accezione più plateale del termine e per questo ingombrante, tanto che, in una lettera al fratello Gaetano scritta molti anni più tardi, lo definì: “esagerato alla d’Annunzio”Il tema della decadenza dei valori, affrontato con Il piacere nell’ottavo decennio del secolo, era stato ed era ancora centrale nelle riflessioni estetiche e negli aggiornamenti concettuali e tematici di Boldini, che già intorno al 1879 aveva dipinto una serie di opere fondamentali, fra le quali per esempio Giovane coppia su un divano nello studio di un pittore, oltre a rappresentare i locali affollati delle Folies Bergère, realizzati in una commistione di mobilità pittorica ed eccitazione materica estenuanti. Nel 1886 la crisi sociale era stata presa a soggetto dalla rivista “Le Décadent”, da Paul Verlaine e dai cosiddetti poeti maledetti: “Sono l’Impero alla fine della decadenza, che guarda passare i grandi Barbari bianchi componendo acrostici in- dolenti in uno stile d’oro dove danza il languore del sole”.Nel quadro delle dinamiche sociali che legarono Boldini a d’Annunzio, emigrato in Francia fra il 1910 e il 1915 per sfuggire ai creditori, un posto speciale spetta certamente alla figura di Mary Dorothea Labouchère, detta Dora, emblematicamente ritratta dal maestro in una serie di dipinti nel 1910.La ragazza era figlia di Henry Du Pré Labouchère, politico e giornalista inglese trasferitosi definitivamente a Firenze nel 1906, dove morì nel 1912 la- sciandole un enorme patrimonio.Nel 1903, a soli diciannove anni, la futura ereditiera convolò a nozze con Carlo Emanuele, marchese di Rudinì, il cui padre, Antonio Starrabba, latifondista e per due volte primo ministro del Regno, era stato a sua volta ritratto da Boldini nel 1898.Carlo volle quale testimone di nozze l’amico Gabriele, il quale in quell’occasione conobbe, o forse rivide, la sorella Alessandra, giovane vedova del marchese di Riparbella, Marcello Carlotti, morto tre anni prima, dal quale aveva avuto due figli.Approfittando dell’assenza, in quei mesi, della Duse impegnata in una tournée europea, Gabriele corteggiò e presto sedusse l’avvenente aristocratica, cui in precedenza non erano mancati illustri pretendenti, come il gran duca Sergio della famiglia imperiale russa, e che fin da ragazzina aveva mostrato un temperamento esuberante, essendo stata anche espulsa dal collegio del Sacro Cuore di Trinità dei Monti a Roma proprio a causa della sua indole inquieta.Così, nel marzo del 1904, giunta a termine la convivenza con la Duse, Alessandra, ribattezzata dal poeta Nike per la sua bellezza statuaria, nonostante l’assoluta contrarietà del fratello e del padre, decise di trasferirsi con il poeta a Settignano, alla villa La Capponcina.L’anno successivo, ammalatasi di un tumore all’utero, subì un complesso intervento chirurgico e, ricoverata nella clinica fiorentina Villa Natalia, fu premurosamente assistita dal compagno ma ignorata dal padre e dal fratello, ancora furibondi con d’Annunzio. Sebbene la ragazza si fosse ristabilita, il poeta, come di consueto, perse progressivamente interesse nei suoi confronti e la relazione si spense fra 1906 e il 1907, quando l’ex amante si trasferì a Roma, prendendo poi i voti.Fu più tardi, intorno al 1913, che il rapporto fra il poeta e la famiglia Rudinì avrebbe assunto contorni più opachi, oggi in parte ricostruibili grazie al ritrovamento di tre lettere inedite indirizzate da d’Annunzio a Dora, dalle quali si evince la loro relazione segreta, finora sconosciuta alle cronache storiche ma di cui avevamo in passato dichiarato il sospetto, originato da taluni episodi conflittuali fra lei e la Casati, cioè l’amante per così dire “nota”, che non avrebbero trovato altrimenti giustificazione. Nel primo foglio in particolare, “l’amorevole” d’Annunzio scrisse a Dora di aver chiesto sue notizie alla marchesa Casati alla quale, evidentemente, non passarono inosservate queste attenzioni apparentemente innocenti. Pubblichiamo dunque qui, per la prima volta, queste pagine, gelosamente custodite in segreto per oltre un secolo, quali anello di affrontato nel nostro saggio pubblicato nel catalogo della grande mostra boldiniana del 2017 al Vittoriano di Roma.Lettera 1, Fogli 1-2 Ex libris in alto a sinistra: “Per Non Dormire” Cara Dora, Anche io vorrei tanto vedervi. L’altra sera ho domandato di voi alla Marchesa Casati. Verrò a pranzare con voi domani, venerdì 13 Ma a che ora? Il vostro molto devoto amico Gabriele d’AnnunzioP.s. Hotel Maurice, Questo giovedìLettera 2, Fogli 3-4 Ex libris in alto a sinistra: “Per Non Dormire” Cara terribile Dora, Ho preso freddo ieri tornando in automobile e stamani ho un vile raffreddore che mi impedirà di avvicinarmi stasera a una creatura divina come voi siete.Sono qui pieno di tristezza e umiliazione. Mi sentirei un poco consolato se potessi sperare di avere una di queste prossime sere, la gioia e il supplizio di accompagnarvi. Quando?Com’eravate strana e dolce ieri! Una magnolia con un cuore nero. Il vostro GabrieleP. S. Rue Bassano III Questo giovedì?Lettera 3, Fogli 5-6Cara Dora, Chiedo perdono umilmente di non aver risposto l’altra volta. Sono impegnato per sabato, ma mi libero per avere la gioia di rivedere i vostri occhi. A sabato sera, dunque, Grazie. Il vostro per sempre Gabriele.Alla luce di questa scoperta e sebbene l’ex libris in alto a sinistra di alcune di queste lettere, certe scritte in francese, rimandi al soggiorno d’oltralpe del Vate intorno al 1913, vi è da domandarsi quando ebbe effettivamente inizio la loro intesa e se possa essere addirittura ricondotta al decennio precedente. Un’ulteriore testimonianza del rapporto fra Gabriele e i Labouchère è fornita da un telegramma in entrata, conservato nell’Archivio Generale del Vittoriale degli Italiani, datato 16 marzo 1904, sulla cui busta è genericamente annotato Labouchere (madame): “Quando lei ritorna a Firenze voglio vederla e parlare per la figlia di Giorgio Alexander di Londra vuole comperarla. Prego rispondere. Madame Labouchere, Villa Cristina”. Recando l’indirizzo fiorentino non è dato tuttavia sapere se la missiva sia stata trasmessa da Dora o dalla madre Henrietta Hodson.La contiguità con la famiglia Rudinì si consolidò ufficialmente, come abbiamo detto, prima con la partecipazione del poeta al matrimonio di Dora in qualità di testimone e poi con l’inizio della sua relazione con la cognata Alessandra.In queste epistole si coglie forse il senso più profondo del decadentismo morale dannunziano, di cui Il piacere oggi potrebbe forse apparirci la sublimazione letteraria, in una combinazione fra vis inventiva e una realtà che va oltre ogni borghese immaginazione, nella quale vi è, evidentemente, una completa identificazione fra narratore e protagonista. Probabilmente la stessa di quando, nel 1910, vestendo nel romanzo di mortali passioni Forse che sì forse che no i panni dell’aviatore Paolo Tarsis, attribuì una vicenda incestuosa alla famiglia patrizia degli Inghirami di Volterra.Una cifra narrativa che ne Il piacere esplora gli abissi della coscienza, annichilita dai fremiti potenti e primitivi della passione che scandiscono e riempiono i tempi psicologici dell’ozio, prevalendo sempre e comunque sui dubbi intellettualistici e sui moniti etici indotti dal pensiero occidentale.Se il mito del superuomo ricorre nella letteratura e nella vita sregolata e inimitabile del poeta, è lo stesso Boldini a delineare in alcune lettere il pro- filo psicologico altrettanto irrequieto e estroverso di Dora, definendola “Perfida Divina! appellativo che ricorre nel linguaggio di entrambi gli artisti – e lamentandosi perché “impossibile acchiapparla, tenerla! Sfugge, ritorna, risfugge”. Nonostante le innumerevoli amicizie in comune lascino immaginare un rapporto punteggiato di contatti più o meno occasionali ma comunque frequenti, nonché vissuto nella piena consapevolezza dei rispettivi ruoli di eccezionali protagonisti della cultura del tempo, gli incontri documentati fra il pittore e il poeta risultano invece piuttosto esigui.Uno fra i primi e più importanti, che invero sembrerebbe presupporre una familiarità precedente, avvenne nel settembre del 1908, quando Boldini raggiunse d’Annunzio a Venezia per incontrare la marchesa Casati “a colazione all’Hotel Danieli. Era vestita di nero da capo a piedi, adornata con una delle sue ormai usuali e lunghe collane di perle. Mentre si avvicinava al tavolo, notò che il suo amante non era solo. Accanto a lui c’era un uomo sulla sessantina e oltre, tanto basso quanto grassoccio, con due baffi grigi spessi e un paio di occhiali a stringinaso agganciati in cima al naso bulboso. Proprio in quel momento, la collana di Luisa si ruppe, e le perle rimbalzarono sul pavimento del ristorante. L’estraneo si gettò carponi a offrirle aiuto”.Oltre ai reciproci saluti, ripetutamente affidati, negli anni a venire, a comuni amici, il loro rapporto si sostanziò, in effetti, in due presunte raccomandazioni del poeta in favore dell’artista, che il 23 maggio 1911 chiedeva la sua intercessione per poter realizzare il ritratto dell’attrice e ballerina russa Ida L’vovna Rubinštejn con il costume da guerriero indossato nell’esibizione parigina de Il martirio di san Sebastiano, composto per lei da d’Annunzio. La condivisione di punti di vista espressivi sensibili estremamente sofisticati, a tratti capaci di manifestarsi quali francesismi in Italia e italianismi in Francia, sovente disallineati e fuori dal coro, li accomunò nella denuncia della crisi morale dei ceti sociali più alti che, alle soglie del Novecento, avrebbero dovuto affrontare la sfida della radicale e imprevedibile riorganizzazione delle società di massa. Secondo le loro parafrasi artistiche e letterarie, le élite avrebbero potuto preservarsi e sopravvivere a sé stesse, nutrendo il culto della bellezza, avvertita, in senso lato, quale sunto di eleganza e stile di vita, imprescindibilmente legato alla valorizzazione dell’arte, della cultura e dell’io.Le ricerche per il saggio sono state condotte dall’autore in collaborazione con Ludovico Baldelli, Elisa Larese e Vittoria Meoni, ricercatori del Museo archives Giovanni Boldini Macchiaioli di Pistoia.Si ringraziano Alessandro Tonacci e Roberta Valbusa, responsabili degli Archivi e Biblioteche della Fondazione del Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera, per le puntuali indicazioni fornite in merito ai carteggi dannunziani lì conservati.Di Tiziano Panconi...