Museo Archives Giovanni Boldini Macchiaioli

Museo Archives Giovanni Boldini Macchiaioli

Pur collocando Natali fra gli artisti di accezione squisitamente realista, la sua immaginazione fu in realtà il suo habitat privilegiato: quello vagheggiato degli eroi borghesi, dei paladini comuni, di coloro che, attraverso la memoria e quindi il colorito racconto dialettale, riferivano episodi, stralci di una esistenza semplice, molto simile alla sua, a quella del ceto familiare di derivazione, alla cui gente l’autore si sentì profondamente legato. Natali osservava ammirato le creature della strada superare la propria condizione di disagio attraverso la vivacità del loro vivere, la gioia di raccontare e raccontarsi enfatizzando i piccoli, spesso soltanto supposti, successi della quotidianità, alimentando leggende metropolitane di risse furibonde, di marinai rubacuori scampati a mille tempeste, di prostitute mitiche sorprese dalla limpida luce lunare a mercanteggiare un gesto d’affetto con i cuori impavidi e solitari della notte livornese.

Gente che non aveva avuto niente, che non possedeva nulla se non la fantasia e l’arte di arrangiarsi, per vivere giorno per giorno compiacendosi pienamente di quel contesto cittadino amichevole, diremmo familiare, dove, al pari dei piccoli paesi della provincia, i rioni popolari di Livorno offrivano il gettito spontaneo della battuta, confidenza e rispetto a prescindere dalla posizione sociale di appartenenza.

L’aneddoto simbolico anteposto al dato concreto, la supremazia sul rivale, la vittoria o la resa intesa quale posizione ferma dello stato di pertinenza a una data comunità, produssero la necessità di selezionare quei modelli umani eroici che vivevano abitualmente di fronte agli occhi del maestro, da riproporre in chiave moderna, avviando una indagine circospettiva antropologica intrapresa in piena sovranità filosofica, che non fosse tuttavia scomputata da una registrazione narrativa del contesto storico in cui questi personaggi si muovevano.

La commedia popolare cittadina o meglio il teatro della notte, da cui Natali estrapolava i propri racconti, è permeato del suo idealismo, rigetta ogni circostanziata evocazione storica e si svolge tuttavia, senza eccezioni, in una atmosfera densa di eroismo e di solitaria grandezza. L’arena cittadina, messa idealmente in scena nelle strade e nelle piazze della sua amata Livorno è in tutto conforme alla storia, ai costumi e alle abitudini della città portuale e, nei suoi dipinti, costituisce una equilibrata sintesi fra realtà oggettiva e fervida immaginazione.

I suoi personaggi, a prima vista impenitenti peccatori o corrotti malfattori, hanno tuttavia il compito educativo, intellettuale e morale, di fornire buoni modelli e, più spesso, il monito dei cattivi esempi, quali paladini della libertà e della verità, ritenendo Natali che l’impulso naturale sia principio di ogni nobile azione e la pittura, dal canto suo, un moto naturale dell’anima, cosicché anche il concetto di libertà che egli esprime non possieda precise connotazioni politiche o religiose, ma resti una riflessione personale, espressione di un individualismo eroico comunque legato al retaggio culturale risorgimentale e alla necessità intellettuale di affermazione della libertà di espressione dell’individuo, dell’uomo comune che vive con disinvoltura le sue gioie e i suoi piccoli o grandi drammi, gettandosi senza reticenza nella mischia, riconoscendo al fato, al divino, il potere di intervenire e di decidere del suo destino.

Le sue figure, donne e uomini dei mercati e del porto, non hanno le sembianze della gente mesta dei quartieri più poveri da cui in realtà provengono ma hanno invece la grandezza e la monumentalità fisica dell’eroe; gli ampi scialle avvolgono le abbondanti corporature su cui poggiano volti austeri, volti di guerriero, sguardi temerari, forme che trascendono la realtà e echeggiano il mito del classico, del guerriero greco o romano cantato da Omero e, all’epoca, assunto a icona dell’epopea fascista.

Il caso Natali è inesorabilmente legato alla storia stessa di Livorno che negli anni più cruciali del XX secolo, quelli segnati da province italiane; una visione, la sua, i cui cardini di tangibilità oggettiva si misurano su una accensione cromatica del tutto inedita, le cui connotazioni folcloristiche segnano appunto il limite fra realtà e immaginazione, a supporto di una visione idealizzata apparentemente avulsa, per reazione, da drammaticità e disperazione.

Una cesura con l’Ottocento, confluita nel senso diffuso di crisi, di smarrimento o di necessità morale di riammodernamento dei linguaggi espressivi, in Toscana fu simbolicamente segnata di una prassi descrittiva essenzialista e poi delle esperienze futuriste6 che interruppero una tradizione secolare di rappresentazioni oggettive subordinate al dato reale.

Se nella fase ultima dell’Ottocento, per il vecchio Fattori, per Signorini e per i molti caposcuola che a vario titolo gravitavano sul litorale tirrenico, l’antagonista principale fu il dogmatismo scientifico delle accademie, che sostanzialmente negava la piena autonomia di espressione, per contrappasso, nel primo stadio del Novecento, i principi scientifici che pure costituivano ancora i fondamenti strutturali della educazione artistica dei pittori della generazione di Natali furono considerati, almeno nelle intenzioni programmatiche, completamente superati, elucubrazioni mentali congegnate dall’uomo e prive di un riscontro evidente nella oggettività delle cose, destinate invece a essere rappresentate attraverso la prestanza nuova e originale dei vivaci contrasti cromatici.

Dunque, se gli effetti del decadentismo – che a Livorno si fecero sentire, soprattutto nell’ambiente del caffè Bardi, attorno alla discussione dannunziana – sortirono quale risultato precipuo l’irrazionalismo, ovvero la perdita di fiducia nel potere della ragione, ormai troppo condizionata da un preconcetto acquisito di verità labile e ingannevole, la nuova ricerca delle arti letterarie e visive, volgeva, Natali in testa, verso uno studio emotivo della personalità e dell’ambiente riferito, avulso, per quanto possibile, da una analisi scientificamente ragionata delle sembianze e degli aspetti esteriori, cogliendo invece quel tanto di organico e inaspettato che il convulso repertorio umano cittadino poteva offrire.

Si trattava, in sostanza, di riporre le convenzioni narrative caratteristiche del primo tratto della rigenerazione estetica novecentesca, rimboccandosi le maniche, infilando metaforicamente le mani nella terra sudicia, nella cruda realtà, volgendo uno sguardo diretto e ravvicinato all’essenza delle cose, subordinando l’obiettività del dato esteriore a una descrizione caratteriale, sovente lontana dalla effettività apparente ma più capace, tuttavia, di cogliere gli aspetti più intimi e esclusivi del soggetto.

Se l’adesione soltanto temporanea al divisionismo di Benvenuti e di Nomellini che esprimevano allora lo stato più avanzato della ricerca figurativa nostrana, dimostrando una piena comprensione del problema modernista, fu per l’artista un fatto quasi naturale, fu invece nella limpida moralità costruttivista di Ghiglia, Lloyd e Modigliani che Natali individuò una effettiva alternativa e una conveniente risorsa per coniare una cifra espressiva del tutto inedita, composta per campiture ampie, per grandi masse cromatiche dai toni accesi quanto sorprendenti e inaspettati che, pur volendo volgere uno sguardo a ritroso, non trovano analogie né corrispettivi.

La prima contesa mondiale fu l’acqua sorgiva dalla quale il Fascismo nacque quale autonoma forza politico-ideologica, cui il regime si riferì costantemente per dare sostanza storica alle ambizioni e ai progetti di pianificazione dello Stato nuovo che nella grande guerra aveva visto una prova collettiva dove gli Italiani si erano finalmente riconosciuti come Nazione, una dimostrazione di forza e spirito della quale la dittatura salvaguardò il ricordo, con un imponente e capillare sforzo propagandistico.

La sostanza estetico-antropologica con cui Natali rappresentava la gente di Livorno, risentì dunque di motivi e suggestioni, di concetti etici e schemi mentali caratteristici dei primi cinquant’anni del Novecento derivati direttamente da un sostrato culturale di tipo ottocentesco che, nell’orgoglio nazionale e nell’amor patrio, recuperava il senso della collettività maturato nelle trincee, nelle battaglie, nei disagi e nella fame patita dai livornesi con solidarietà reciproca, fierezza e comunanza di spirito.

Sostenendo la necessità di un rinnovamento culturale, anche in Toscana e a Livorno, proprio negli anni cruciali della attività artistica del nostro, la propaganda fascista ingaggiava le più rappresentative correnti del pensiero contemporaneo, rinunciando, almeno nelle prime intenzioni, programmaticamente a qualsiasi ortodossia unitaria aspirando, piuttosto, a far evolvere l’arte di regime in un terreno di incontro e di confronto dialettico fra diverse esperienze intellettuali, tentando di eludere così le temibili posizioni di intolleranza.

Come accadde per molti altri artisti toscani, Nomellini in primis, questa fu probabilmente la guisa con cui il nostro intese interpretare l’oligarchia del ventennio e, forse, i ritratti del Duce e le molte marce su Roma dipinte dal livornese non furono che una testimonianza di nostalgia epica e di orgoglio nazionale che, soltanto molti anni dopo, vedrà da parte degli Italiani una presa di coscienza della effettiva portata del problema.
Nel momento in cui l’arte europea subiva un profondo mutamento, abbandonando la tradizionale impostazione realista, Natali recuperava la cronaca quotidiana della sua città, quella trascurata dalle relazioni e dalla informazione di governo, divenendone un acuto testimone, mentre, fra consensi e dissensi, faceva vacillare i cardini dell’estetica naturalista che in Toscana aveva primeggiato fin dagli anni della nota restaurazione macchiaiola.
Nei suoi quadri la narrazione si frammenta in ampie tarsie colorate per poi ricompattarsi in un nuovo punto di vista narrativo dove forme di vocazione geometrica sono assemblate per comporre una superficie al tempo stesso larga e vibrante: le sue strade, i suoi cieli, sono collage di forme irregolari dove nuance colorate si mischiano alle secche zone di luce dei lampioni o della luna e alle cupe ombrosità della notte.
I volti della sua gente, come le maschere africane che egli aveva attentamente considerato, con Modigliani fra il 1913 e il ‘19 quando fu di stanza a Parigi, hanno sembianze austere e misteriose, tratti severi e uniformi e, peculiarmente, sempre simili a se stessi, come lo sono le mura logore della città e le modeste imbarcazioni della gente di mare la cui misura morale idealizzata è data dalla tipicità della forza espressiva delle violente selezioni cromatiche che le compongono..

Mentre Puccini, ma soprattutto Modigliani, Lloyd e Ghiglia, congiunzione quest’ultimo privilegiata con l’erudito ambiente culturale fiorentino fiorito intorno alle figure di Papini, Oietti, Soffici e ai sostenitori della rivista Leonardo, attribuivano alla loro scienza un valore spirituale quasi religioso, Natali rappresentava la parte più spontanea e animatamente irrazionale dalla critica contemporanea, una devozione pagana alla divinità della vita, al soffio dinamico del tempo che sfugge irrefrenabile, scandito dai gesti e dai fatti della cronaca minuta.

Laddove per Micheli, maestro della principale accademia cittadina e padre putativo del folto novero di pittori naturalisti attivi in ambito labronico a cavallo dei due secoli, il principio di realtà coincise con i valori filosofici della verità, mistificando le qualità atmosferiche dell’ora solare, della luce che trasfigura la natura assunta a metafora di bene e di vita, per Natali l’ambiente originario non costituì che l’impaginazione architettonica e strutturale della sua pittura, luogo idealizzato, protetto, sovente ripetitivamente uguale a se stesso, dove non potevano scendere le fitte cortine nebbiose della ideologia razionalista neo-accademica, prendeva piuttosto corpo la forza nuova e preponderante del libero arbitrio, del disegno idealizzato, del colore puro, talvolta temperato da atmosfere di intensa connotazione emotiva.

Il cosiddetto Colorismo toscano19 che aveva bevuto il suo primo latte dal divisionismo cromatico di Nomellini e dal quale anche il nostro era stato svezzato, nacque dunque quale alternativa alle secche realiste in cui versava ormai una cifra espressiva protrattasi troppo a lungo nel tempo, in alcuni casi toccando addirittura gli anni trenta e perfino quaranta del Novecento e, mentre i coloristi della prima maniera, fra cui i più vecchi Liegi, Lloyd, Ghiglia, Bartolena e Benvenuti, portavano avanti un linguaggio alto, aderendo comunque a un filone movimentista subordinato alle rendite di una comune ricerca, l’artista Natali muoveva i suoi passi in completa autonomia rappresentando la realtà con una sensibilità psicologica nuova, non più squisitamente incentrata sulle risultanze tonali di composizioni brevi, di intenso raccoglimento spirituale e espressivo, ma elaborando invece complicate rappresentazioni di grande effetto scenografico.


A eccezione del caso Modigliani, ormai a tutti gli effetti naturalizzatosi francese, forse per la prima volta, a Livorno entrava in scena il brutto quale genere espressivo peculiare, ovvero quel tipo di raffigurazione creativa non più aderente – come nel caso di Lloyd o Ghiglia ma anche degli amici Romiti, Filippelli o Lomi, ai valori di grazia e di bello assoluto, ma in consonanza invece con uno stato sentimentale che rispondeva all’angoscia del suo vivere in una condizione di isolamento mentale in netto contrasto con un carattere mite e affabile, spontaneamente portato all’amicizia ma intimamente incapace di vincere una radicata cautela.

Accentuando vertiginosamente la complessità narrativa e l’articolazione cromatica degli scorci cittadini che, specialmente nei primi anni trenta, denunciavano una forte tensione drammatica, disciolta in seguito in tinte più solubili e delicate, l’autore volgeva infine a una definizione caricaturale dei personaggi rappresentati, figure, spesso figlie della notte, ritratte rifacendosi, anche se indirettamente, al costruttivismo della sintassi cezaniana, ombre e sostanza misteriose accarezzate dal riverbero lunare; non più le donne e gli uomini che abitarono la Livorno dei quartieri popolari, bensì personalità trasfigurate, fantasmi e reminiscenze di un mondo fantastico che solo possono appartenere alla sfera intima dell’immaginazione, alla divinità e al demone che abitarono il tempo e lo spirito geniale di Natali.

Tiziano Panconi, “Renato Natali, Il pittore del teatro cittadino” in Renato Natali, venti opere straordinariedipinti fra il 1910 e il 1935, Galleria Rotini, Castiglioncello, 21 Luglio – 30 settembre 2007

Certificati di autenticità, tutela legale. Centro studi promozione dell'opera di Giovanni Boldini e dei Macchiaioli. Progettazione e curatela di grandi mostre culturali